Nel novembre del 1970, Carl A. Larson, genetista di fama internazionale, pubblicò un articolo pionieristico che gettava luce su una nuova e controversa frontiera della ricerca militare: lo sviluppo di armi chimiche capaci di colpire selettivamente in base a caratteristiche genetiche, le cosiddette “armi etniche”.
Carl A. Larson, all’epoca direttore del Dipartimento di Genetica Umana dell’Università di Lund in Svezia, ipotizzava che le differenze genetiche ed enzimatiche tra le popolazioni umane potessero essere sfruttate per creare armi in grado di invalidare selettivamente specifici gruppi etnici, agendo su particolari funzioni biologiche.
Larson parlava di invalidare, suggerendo la possibilità di intervenire su funzioni vitali senza necessariamente causare la morte immediata. Queste armi chimiche, secondo lui, non avrebbero provocato la morte immediata, ma avrebbero potuto limitare o sospendere temporaneamente le capacità fisiche e mentali delle persone colpite, rendendole incapaci di agire, reagire o combattere, e trasformandole così in bersagli vulnerabili.
Il concetto di base è inquietante. Secondo Larson, la ricerca scientifica aveva ormai accumulato abbastanza conoscenze sui geni e gli enzimi da permettere una comprensione approfondita delle reazioni individuali agli agenti chimici. Gli studi mostravano che le popolazioni umane presentano variazioni significative nella loro biologia, il che significa che alcune etnie o razze reagiscono in modo diverso a determinati farmaci o sostanze chimiche rispetto ad altre. Queste differenze, spesso legate a varianti genetiche ereditarie, potrebbero essere utilizzate per sviluppare armi che colpiscono solo individui con determinate caratteristiche biologiche.
Armi che sfruttano le differenze genetiche
Larson portava come esempio il caso della catalasi, un enzima fondamentale per la scomposizione del perossido di idrogeno. Negli anni Cinquanta, i ricercatori scoprirono che alcune famiglie giapponesi non producevano abbastanza catalasi, portando a gravi problemi dentali come ulcere alle gengive e perdita di denti. Questo difetto enzimatico, raro e legato a una mutazione genetica, dimostrava chiaramente come una specifica mancanza biologica potesse avere effetti devastanti per alcune persone ma non per altre.
Questa osservazione si inseriva in un quadro più ampio di studi sulle differenze enzimatiche e genetiche tra le popolazioni. Larson evidenziava come queste variazioni fossero spesso concentrate in particolari razze o gruppi etnici, fornendo così una potenziale base per la selezione di bersagli in ambito militare. Una delle ipotesi sollevate era che si potessero progettare armi chimiche capaci di inibire specifici enzimi in modo da invalidare o uccidere persone con determinate caratteristiche genetiche, lasciando intatti altri individui.
Le radici storiche della ricerca sugli agenti chimici
Lo studio di Larson non si fermava alla teoria. Attraverso una dettagliata analisi storica, egli tracciava le radici della ricerca sugli inibitori enzimatici, sostanze capaci di bloccare reazioni chimiche essenziali per la vita. Sin dagli anni Trenta, laboratori chimici in Europa avevano iniziato a sviluppare agenti come il gas nervino, un potente inibitore enzimatico in grado di interrompere la trasmissione dei segnali nervosi. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Germania nazista produsse su larga scala gas come il tabun e il sarin, capaci di causare paralisi muscolare e morte in tempi rapidissimi.
Questi agenti chimici, affermava Larson, dimostravano quanto fosse pericoloso alterare i delicati equilibri chimici del corpo umano. L’inibizione di un singolo enzima poteva portare a un collasso dell’intero sistema, una lezione che i militari avevano già appreso con l’uso dei gas nervini. La differenza, ora, stava nella capacità di selezionare geneticamente le vittime.
Differenze genetiche e armi chimiche: un’alleanza pericolosa
Larson suggeriva che le differenze genetiche tra le razze umane o le etnie potevano fornire la base per lo sviluppo di queste nuove armi. Le popolazioni asiatiche, africane ed europee, ad esempio, mostrano notevoli differenze nella capacità di metabolizzare farmaci o sostanze chimiche. Studi su varianti enzimatiche e genetiche in popolazioni distinte avevano già dimostrato che alcune persone erano più vulnerabili a certi farmaci o veleni.
Uno degli esempi più citati riguarda l’intolleranza al lattosio. Mentre la maggior parte degli europei può digerire il latte senza problemi, molte popolazioni africane e asiatiche perdono l’enzima necessario, la lattasi, nei primi anni di vita. Questa differenza, che può sembrare insignificante in tempi di pace, potrebbe essere sfruttata in un contesto bellico, dove un’arma chimica progettata per bloccare la lattasi potrebbe colpire selettivamente interi gruppi etnici, causando diarrea, vomito e potenzialmente la morte.
Il futuro delle armi etniche
Il quadro dipinto da Larson è inquietante. Le sue ricerche suggeriscono che un aggressore potrebbe sfruttare la conoscenza delle differenze genetiche per progettare armi chimiche capaci di colpire solo determinate popolazioni. Queste armi, chiamate “invalidanti“, potrebbero rendere invalide temporaneamente le persone senza danneggiare le strutture o le infrastrutture. L’idea era di usare piccole quantità di agenti chimici per rendere inattive le popolazioni di intere città, permettendo di neutralizzare un nemico senza spargimento di sangue.
Tuttavia, queste armi presentano anche un lato oscuro. Un eventuale aggressore potrebbe preparare la propria popolazione esponendola gradualmente agli agenti chimici, rendendola immune, mentre i nemici rimarrebbero vulnerabili. Questo scenario creerebbe un vantaggio tattico enorme e potrebbe essere utilizzato per sottomettere rapidamente intere nazioni.
Conclusioni: tra etica e guerra
L’idea di “armi etniche” solleva questioni morali ed etiche profonde. Se da un lato queste tecnologie potrebbero rappresentare un avanzamento nel campo delle armi non letali, dall’altro portano con sé la minaccia di una nuova forma di discriminazione biologica su larga scala. In un mondo in cui la genetica viene utilizzata come arma, la stessa diversità umana potrebbe diventare una fonte di vulnerabilità, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per l’umanità.
In definitiva, lo studio di Larson apre la strada a un dibattito cruciale: fino a che punto è lecito spingersi nella manipolazione delle differenze genetiche? E cosa accadrebbe se queste armi venissero effettivamente sviluppate e utilizzate contro le popolazioni? Domande che, ancora oggi, risuonano con inquietante attualità.