La riposta, in sintesi, è sì: si osserva un netto calo della mortalità nei pazienti ospedalizzati in tutto il mondo e non solo nei giovani adulti. In uno studio italiano il calo di mortalità è del 71 per cento. Ecco perché
«Non è come a marzo» si ripete riguardo alla situazione odierna in merito all’incidenza del coronavirus. I confronti si possono fare su molteplici variabili : numeri, dati, provvedimenti presi, criticità. Un fattore che è migliorato riguarda i pazienti Covid ospedalizzati: la loro probabilità di guarire è aumentata notevolmente rispetto alla scorsa primavera, non solo in Italia e non solo per i giovani, ma anche per anziani e persone con altre patologie. Sappiamo curare meglio, in alcuni casi molto meglio.
Tassi di mortalità diminuiti per tutti i gruppi
Due nuovi studi mostrano l’entità del calo della mortalità tra i pazienti Covid-19 ospedalizzati. Il calo si osserva in tutti i gruppi, compresi i pazienti più anziani e quelli con patologie sottostanti, dell’ordine di circa il 20% dai giorni peggiori della pandemia. Il primo studio è stato condotto in Usa da un team della Grossman School of Medicine della New York University su 5.000 ricoveri nel sistema sanitario di Langone tra marzo e agosto: i pazienti esaminati avevano una probabilità del 25,6% di morire all’inizio della pandemia e ora hanno una probabilità del 7,6%. 18 punti percentuali in meno. La ricerca è stata fatta adeguando fattori come l’età e altre malattie, per escludere la possibilità che il numero fosse diminuito solo perché venivano diagnosticate persone più giovani e più sane. Hanno scoperto che i tassi di mortalità sono diminuiti per tutti i gruppi, anche per i pazienti più anziani. La ricerca apparirà la prossima settimana sul Journal of Hospital Medicine.
Il secondo studio di questo tipo è stato condotto in Gran Bretagna presso l’Alan Turing Institute su 21.000 casi ospedalizzati. Il lavoro, che apparirà presto sulla rivista Critical Care Medicine, mostra un calo dei tassi di mortalità tra i pazienti ospedalizzati di circa 20 punti percentuali dai giorni peggiori della pandemia, anche se in questo caso i dati non sono stati adeguati escludendo le variabili relative a età, patologie preesistenti e gruppi etnici.
Studio italiano con riduzione del 71%
Alcuni dati italiani sono ancora migliori, come ci spiega Marco Confalonieri, Professore di Malattie dell’apparato respiratorio all’Università di Trieste e Direttore della S.C. Pneumologia di Trieste: «Nel nostro studio abbiamo avuto una riduzione di mortalità rispetto a prima dell’uso del cortisonico del 71% nei pazienti con grave polmonite che necessitavano di ventilazione meccanica o di supporto respiratorio. Il nostro studio è partito prima, ma non abbiamo fatto il confronto con placebo per motivi etici, quindi è una ricerca di tipo “osservazionale” per questo». È appena avvenuta la pubblicazione su una rivista della Società Americana di Malattie Infettive “sul metilprednisolone nelle più gravi forme di polmonite da Covid-19”. La ricerca è stata coordinata dalla Pneumologia dell’Ospedale di Cattinara di Trieste diretta dal Professor Confalonieri e ha visto la partecipazione di 14 Centri ospedalieri italiani.
Cosa sappiamo fare meglio: il cortisone
Nelle ricerche Usa e GB si citano alcuni tra i motivi che potrebbero aver portato al miglioramento dei risultati nelle cure a livello ospedaliero. Un insieme di fattori tra cui la capacità di riconoscere rapidamente quando i pazienti sono a rischio di sviluppare coaguli di sangue o la reazione pericolosa e anomala del sistema immunitario chiamata “tempesta di citochine”. Poi la messa a punto di protocolli standardizzati che rendono molto più facile affrontare le complicazioni perché si dispone di linee guida. «Noi seguiamo il protocollo che abbiamo messo a punto e che si basa su determinati dosaggi. Il protocollo è stato ideato con il Professor Meduri dell’Università di Memphis e si basa sull’uso innovativo dei cortisonici. Sono protocolli che aiutano a curare in modo migliore i pazienti che in ospedale hanno forme gravi di polmonite», conferma il Professor Confalonieri. «Sappiamo curarli meglio per due motivi – aggiunge l’esperto -: uno perché si è visto che l’utilizzo del cortisone a basse dosi prolungate nel tempo è efficace per ridurre la mortalità. E questo è un “vecchio farmaco” che tutti pensano di conoscere bene, ma noi l’abbiamo utilizzato in un modo nuovo cercando di mimare quella che è la risposta fisiologica del nostro organismo. Quando c’è una polmonite grave da Covid-19, un tipo di dosaggio che noi chiamiamo “para-fisiologico” riesce a ricostituire la risposta infiammatoria in modo regolato».
Approccio non invasivo
«L’altro fattore importante è l’approccio non invasivo della pneumologia – prosegue Confalonieri -. All’inizio si è data molta importanza all’intubazione ed è giusto che sia una riserva quando non ci sono altre possibilità, ma si è anche visto che in ambiente sicuro utilizzare il casco o la ventilazione non invasiva riduce i tempi di degenza e riduce le complicanze». Ricordiamo che molti pazienti questa primavera avevano un improvviso peggioramento una volta ricoverati, adesso si riesce anche a prevenire il momento dell’aggravarsi del quadro clinico? «Molte persone purtroppo questa primavera arrivavano troppo tardi in ospedale. C’è un intervento più precoce adesso rispetto a questa primavera, dove le forze dell’ospedale erano state sopraffatte». Adesso come sta andando? «Non faccio l’epidemiologo e curo i malati con polmonite. Posso dire, però, che dopo un’estate in cui casi erano sporadici (sto parlando di casi gravi), adesso arrivano tutti i giorni. È quindi evidente che siamo di fronte a un’altra ondata. Da 50 anni ormai si demonizzano i posti-letto ospedalieri con una narrazione in parole e immagini che ha portato a diminuire i posti-letto ospedalieri in Italia al 3.2 per mille abitanti, mentre in Germania ne hanno 8.3 per mille abitanti, con risultati che ognuno può osservare nei fatti».
Non ci sono farmaci specifici
Mantenere i reparti di ospedale al di sotto della loro capacità massima era un altro dei fattori che negli studi citati veniva indicato come elemento chiave per il miglioramento della possibilità di sopravvivenza: il famoso “stress ospedaliero” che dobbiamo in tutti i modi evitare. Le possibilità di cura sono migliorate anche senza aver ancora trovato in modo definitivo un farmaco specifico contro il Covid-19, visto che quelli più promettenti sono “solo” tre e sono in Fase 3 di sperimentazione (QUI la scheda sui farmaci contro il Covid, ndr).