La recente dichiarazione dell’Italia secondo cui non arresterà il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in caso di una sua visita, nonostante il mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI), rappresenta un grave passo indietro per lo stato di diritto e per l’integrità del sistema giudiziario internazionale. Questa scelta, giustificata ufficialmente con il principio dell’immunità diplomatica, solleva interrogativi profondi sulla coerenza dell’Italia nel rispetto degli obblighi internazionali.
L’immunità diplomatica è un pretesto per l’impunità.
Secondo la Convenzione di Vienna, i capi di Stato godono di immunità durante le visite ufficiali. Tuttavia, questo principio non può essere utilizzato per proteggere individui accusati di gravi crimini internazionali, come crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
In qualità di Stato parte dello Statuto di Roma, l’Italia ha il dovere giuridico di collaborare pienamente con la CPI, compresa l’esecuzione di mandati di arresto emessi nei confronti di individui accusati di crimini internazionali. Ratificando il trattato nel 1999, l’Italia ha accettato:
- Di rispettare la giurisdizione della CPI, anche nei confronti di capi di Stato o di governo, poiché lo Statuto esclude le immunità per cariche pubbliche.
- Di eseguire i mandati di arresto: quando richiesto dalla Corte, l’Italia deve trasferire l’imputato alla giurisdizione della CPI, seguendo le procedure previste dall’ordinamento interno.
Lo Statuto di Roma impone agli Stati parte di cooperare con la CPI senza eccezioni, salvo:
- Questioni procedurali: Se il mandato presentasse irregolarità o fosse incompatibile con le norme italiane.
- Giurisdizione concorrente: Solo se l’Italia decidesse di perseguire gli stessi crimini attraverso il proprio sistema giudiziario.
Nessuna di queste condizioni è applicabile al caso di Netanyahu.
Il mandato della CPI contro Netanyahu non è una questione politica, ma un atto giuridico fondato su accuse documentate e gravi. La scelta dell’Italia di non riconoscere questo mandato non è solo un atto di disobbedienza nei confronti di un organismo internazionale, ma un vero e proprio schiaffo alla giustizia.
Contraddizioni e incoerenze nel governo italiano
La vicenda ha messo in luce una preoccupante frammentazione all’interno del governo italiano, che appare sempre più privo di una linea politica coerente e responsabile. Da un lato, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha minimizzato la questione, affermando che l’arresto di Netanyahu sarebbe “impraticabile” finché rimarrà in carica come primo ministro, come se la legalità internazionale fosse soggetta alle convenienze politiche del momento. Questo tipo di dichiarazione non solo è imprecisa, ma distorce gravemente la realtà giuridica: l’Italia, come Stato parte dello Statuto di Roma, ha l’obbligo giuridico di eseguire i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale, senza alcuna eccezione legata al ruolo ricoperto da un individuo. La giurisdizione della CPI non prevede immunità per i capi di Stato o di governo, e l’Italia non può invocare scuse politiche per sottrarsi ai propri doveri internazionali.
Dall’altro lato, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha, almeno a parole, riconosciuto che l’Italia ha l’obbligo di rispettare gli impegni presi con la CPI. Questa doppia posizione, che oscilla tra il minimizzare e il riconoscere l’obbligo giuridico, non fa che indebolire ulteriormente la credibilità dell’Italia sulla scena internazionale. Il messaggio che ne deriva è quello di un Paese che non sa quale direzione prendere. In questo contesto, le dichiarazioni di Tajani, lontane dalla realtà giuridica, rappresentano un tentativo di eludere un obbligo che non ammette interpretazioni flessibili, mettendo in discussione la serietà dell’Italia nei confronti delle proprie responsabilità internazionali.
Le implicazioni morali e politiche
La decisione dell’Italia di non applicare il mandato della Corte Penale Internazionale (CPI) ha implicazioni gravissime, che vanno ben oltre il caso specifico di Netanyahu. Rinunciare a eseguire un mandato internazionale significa inviare un messaggio pericoloso e devastante: i leader politici, soprattutto quelli di alto rango, possono godere di impunità per i crimini più gravi, senza temere alcuna conseguenza. Questo atteggiamento mina la fiducia nel sistema giudiziario internazionale, che si fonda sulla presunzione che la giustizia sia uguale per tutti, indipendentemente dal potere politico o dalla posizione internazionale.
Inoltre, la scelta dell’Italia incoraggia altri Stati a ignorare i propri obblighi giuridici, creando un precedente pericoloso. L’impunità offerta ai leader, anche quelli accusati di crimini contro l’umanità, alimenta l’idea che i Paesi occidentali siano disposti a chiudere un occhio sugli abusi commessi dai propri alleati strategici. Questo non solo compromette il principio universale di giustizia, ma rafforza anche la percezione che gli interessi geopolitici possano prevalere sui diritti umani, minando ulteriormente la credibilità dell’Occidente come promotore della giustizia internazionale. In definitiva, la decisione di non applicare il mandato della CPI rischia di indebolire gravemente il sistema internazionale di giustizia, dando l’impressione che le leggi valgano solo per alcuni, non per tutti.
Una scelta di convenienza geopolitica
Non si può ignorare che dietro questa decisione ci siano evidenti interessi geopolitici ed economici. L’Italia ha legami consolidati con Israele, sia sul piano commerciale che politico, e questo inevitabilmente influenza la sua posizione. Tuttavia, sacrificare i principi della giustizia per tutelare interessi politici è un compromesso che non può essere accettato. La credibilità di una nazione si misura dalla sua capacità di anteporre i valori etici agli interessi contingenti, specialmente quando si tratta di difendere i diritti umani e la giustizia internazionale.
Di fronte a questa decisione, è essenziale che la società civile, sia italiana che internazionale, si mobiliti con forza. Le organizzazioni per i diritti umani, gli intellettuali, i cittadini consapevoli devono alzare la voce e chiedere coerenza e responsabilità. L’Italia non può permettersi di tradire i principi che sono alla base delle sue istituzioni democratiche, né il suo impegno storicamente orientato verso la pace e la giustizia.
La decisione di non arrestare Benjamin Netanyahu rappresenta un errore gravissimo, che pone l’Italia dalla parte sbagliata della storia. Rispetto per i mandati della Corte Penale Internazionale non è solo un obbligo legale, ma un dovere morale che riflette l’integrità di un Paese. L’Italia deve dimostrare di essere un Paese che crede nella giustizia e nei diritti umani, anche quando ciò comporta scelte difficili e controverse. Se si scende a patti con l’impunità per motivi politici, il rischio è quello di diventare complice dei crimini che si intende combattere, minando irreparabilmente la sua reputazione e il suo ruolo nella comunità internazionale.