Nell’immagine compare il profilo ufficiale di Yair Netanyahu, figlio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si presenta con la frase “dal fiume al mare, questa bandiera è tutto ciò che vedrai!”.

Yair Netanyahu non è un utente qualsiasi sui social media: in quanto figlio di Benjamin Netanyahu, è una figura pubblica molto conosciuta e spesso sotto i riflettori. La sua presenza sui social è particolarmente intensa, e le sue dichiarazioni generano frequentemente dibattiti accesi, soprattutto per le posizioni politiche nette e talvolta controverse che esprime.
Ed è qui che emerge tutta la complessità dello slogan “dal fiume al mare”. Perché quella stessa frase, a seconda di chi la pronuncia, riceve reazioni completamente diverse. Se la usa un palestinese, viene immediatamente letta come un richiamo alla cancellazione di Israele e condannata duramente come “antisemita” o addirittura “terroristica”. Se invece la usa un israeliano — e non un israeliano qualunque, ma il figlio del premier — allora assume il tono del patriottismo, della difesa dell’identità nazionale, dell’orgoglio di appartenenza. In quel caso diventa non solo accettabile, ma persino legittimo e condivisibile.
La diversa misura dei pesi
Ecco quindi il nodo centrale: la misura con cui giudichiamo lo stesso slogan cambia radicalmente a seconda del soggetto che lo pronuncia.
🔵 Quando sono i palestinesi a dirlo:
- Lo slogan viene interpretato come un invito alla distruzione di Israele.
- È bollato come “antisemita” o “terroristico”.
- Nei Paesi occidentali è spesso vietato nelle manifestazioni o criminalizzato a livello mediatico.
- In sostanza, viene considerato un messaggio di odio che nega il diritto all’esistenza di Israele.
⚪ Quando sono gli israeliani a dirlo:
- Lo slogan viene interpretato come un’espressione di patriottismo, un richiamo al legame storico con la terra tra Giordano e Mediterraneo.
- È incorniciato come orgoglio nazionale, non come minaccia.
- Raramente suscita condanna pubblica o politica, anche quando implica la negazione dell’autodeterminazione palestinese.
- In sostanza, diventa un messaggio accettabile, “normale”, che rafforza l’identità israeliana.
La conseguenza è evidente e profondamente ingiusta: lo stesso slogan viene trattato con due pesi e due misure inconcepibili. In entrambe le sue forme, il messaggio è chiaramente esclusivista — chiede un unico Stato senza alcuno spazio per l’altro. Eppure, la reazione a questo messaggio è radicalmente sbilanciata.
Quando lo pronunciano i palestinesi, viene subito etichettato come un segno di estremismo da reprimere, un pretesto per criminalizzare e delegittimare le loro istanze politiche e umane.
Quando invece a dirlo sono gli israeliani — in particolare figure pubbliche di rilievo come Yair Netanyahu — il messaggio viene trasformato in un’espressione di patriottismo, giustificata e perfino applaudita. Questa doppia morale non è solo ipocrita, ma funziona da strumento di potere che silenzia e marginalizza una parte, concedendo all’altra il monopolio della legittimità e del discorso pubblico.
In questo modo, non si fa che alimentare una narrazione squilibrata, perpetuando il conflitto e impedendo qualsiasi reale possibilità di riconciliazione o giustizia.
