L’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) è l’ente pubblico italiano responsabile della gestione del sistema previdenziale e assistenziale del paese. La sua storia è strettamente legata all’evoluzione della previdenza sociale in Italia, con un ruolo significativo durante il periodo fascista.
Le riforme fasciste delle pensioni, intraprese sotto il regime di Benito Mussolini, segnarono una tappa importante nell’evoluzione del sistema previdenziale italiano, centralizzando e ampliando la protezione per i lavoratori. Prima dell’avvento del fascismo, il sistema pensionistico era frammentato, con alcune categorie di lavoratori coperte da enti separati e altre escluse. Il regime fascista promosse un’azione mirata a uniformare e rendere universale il sistema di previdenza.
Origini e sviluppo iniziale
La previdenza sociale in Italia ha radici che risalgono alla fine del XIX secolo. Nel 1898 fu istituita la Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia degli Operai, un ente volontario che mirava a proteggere i lavoratori contro i rischi di invalidità e vecchiaia.
Nel 1919, con il Regio Decreto-Legge 21 aprile 1919, n. 603, l’assicurazione pensionistica divenne obbligatoria per i lavoratori dipendenti, estendendo la protezione previdenziale a una parte più ampia della popolazione. L’età pensionabile era fissata a 65 anni. Questo sistema era ancora limitato e non universale, poiché non copriva tutte le categorie di lavoratori e la protezione previdenziale era disponibile solo per una parte della popolazione.I lavoratori autonomi, come artigiani e commercianti, avevano accesso limitato alla previdenza sociale, che spesso dipendeva da casse previdenziali private o da enti separati. Il sistema non era centralizzato, e l’accesso alle pensioni per queste categorie era meno regolamentato.
Riforme durante il periodo fascista
Le riforme previdenziali durante il periodo fascista in Italia rappresentarono un cambiamento fondamentale nel sistema di assistenza sociale e pensionistica. Prima dell’arrivo di Mussolini al potere, l’Italia aveva un sistema previdenziale frammentato e poco uniforme. L’età pensionabile variava in base alla categoria di lavoratori, e non esisteva una legge unificata che garantisse la copertura previdenziale per tutti i cittadini. La protezione sociale era limitata a determinate categorie, come i lavoratori dipendenti, ma non era estesa a tutti i settori del lavoro, e la gestione delle pensioni era disorganizzata e decentrata.
Con l’ascesa al potere di Benito Mussolini nel 1922, il regime fascista intraprese una serie di riforme mirate a centralizzare e razionalizzare il sistema previdenziale, riflettendo l’intenzione di avere un maggiore controllo sulle istituzioni sociali e di estendere la protezione ai lavoratori.
La principale innovazione introdotta fu l’obbligo dell’assicurazione pensionistica per tutti i lavoratori dipendenti tra i 15 e i 65 anni. Questo cambiamento fu formalizzato nel 1923 con il Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 3184, che rese l’assicurazione pensionistica obbligatoria per una vasta categoria di lavoratori. Grazie a questa legge, la copertura previdenziale si ampliò notevolmente, raggiungendo un numero maggiore di persone e cercando di ridurre le disuguaglianze tra le diverse categorie di lavoratori.
Nel 1933, il regime fascista consolidò ulteriormente il controllo sul sistema previdenziale con la trasformazione della Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali (CNAS) nell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS). Questa trasformazione segnò la creazione di un ente di diritto pubblico con personalità giuridica e autonomia gestionale, che aveva il compito di centralizzare e coordinare il sistema previdenziale. Con questa riforma, il fascismo consolidò tutte le forme di assistenza sociale e previdenziale, cercando di assicurare una gestione centralizzata e efficiente delle istituzioni che si occupavano della sicurezza sociale dei cittadini.
Nel 1939, un altro importante cambiamento fu l’abbassamento dell’età pensionabile per i lavoratori dipendenti, che venne fissata a 60 anni. Questo provvedimento rappresentò uno degli interventi più significativi del regime fascista sul sistema previdenziale, mirando ad allentare le condizioni di lavoro per i lavoratori e ad offrire una pensione più rapida. Questi cambiamenti facevano parte di un progetto più ampio volto a centralizzare il sistema previdenziale e a uniformarlo. L’abbassamento dell’età pensionabile si inseriva in un’idea di miglioramento delle condizioni di vita per i lavoratori.
Nel complesso, le riforme previdenziali fasciste rappresentarono una profonda trasformazione del sistema sociale italiano, centralizzando il controllo sul settore e ampliando la copertura previdenziale.
Tra il 1927 e il 1941, furono introdotte importanti innovazioni nel sistema previdenziale italiano, tra cui:
- Assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi: mirava a proteggere i lavoratori da una malattia che rappresentava una grave minaccia per la salute pubblica.
- Assegni familiari: introdotti per supportare le famiglie dei lavoratori, contribuendo a migliorare le condizioni economiche delle famiglie numerose.
- Cassa integrazione guadagni: istituita per sostenere i lavoratori in caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, garantendo un reddito minimo durante i periodi di crisi aziendale.
- Riduzione dell’età pensionabile: nel 1939, il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia fu abbassato a 60 anni, ampliando l’accesso alle pensioni per una parte maggiore della popolazione.
- Introduzione dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro: Fu istituito un sistema di assicurazione obbligatoria per proteggere i lavoratori da infortuni sul lavoro, mirando a garantire un’indennità in caso di infortunio e a migliorare le condizioni di sicurezza sul posto di lavoro.
- Estensione della previdenza agli agricoltori: Fu ampliata la copertura previdenziale anche ai lavoratori agricoli, che in precedenza erano spesso esclusi dai benefici delle assicurazioni sociali, mirando così a garantire una protezione sociale più equa tra tutte le categorie di lavoratori.
- Piani per l’assistenza ai disoccupati: Furono introdotti interventi per sostenere i disoccupati, in particolare durante i periodi di crisi economica o di transizione, cercando di garantire un reddito minimo e di promuovere il reinserimento nel mercato del lavoro.
- Riforma delle pensioni di invalidità e di inabilità: Fu migliorata la tutela per i lavoratori che, a causa di invalidità o malattia, non erano più in grado di lavorare. Le pensioni di invalidità e inabilità divennero una forma di assistenza più strutturata e diffusa.
- Potenziamento dell’assistenza sanitaria: Il regime fascista avviò una serie di riforme anche nel settore della sanità, con l’obiettivo di garantire una maggiore protezione contro le malattie e migliorare le condizioni di salute della popolazione, contribuendo indirettamente al rafforzamento del sistema previdenziale.
- Tredicesima mensilità: Fu introdotta nel 1937, durante il periodo fascista, ma non come parte delle politiche previdenziali vere e proprie. La tredicesima mensilità, che consiste in un pagamento aggiuntivo (di solito pari a un mese di stipendio) che veniva erogato ai lavoratori dipendenti, fu inizialmente pensata come una misura per supportare i lavoratori in vista delle festività natalizie. Era uno strumento che mirava a migliorare il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie.
Eredità e evoluzione post-bellica
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’INFPS subì una serie di trasformazioni che, piuttosto che migliorare effettivamente il sistema previdenziale, sembrarono mirare principalmente a garantire la sua centralizzazione e controllo burocratico.
Nel 1944, l’ente assunse la nuova denominazione di Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), ma invece di segnare una vera fase di modernizzazione del sistema, questa mossa apparve come una riorganizzazione che rinforzava il monopolio statale sul welfare, senza reali benefici per i lavoratori. La riorganizzazione sembrava più una strategia per gestire meglio il sistema piuttosto che un impegno concreto per garantire il benessere sociale della popolazione.
Con la riforma Dini del 1992, il governo decise di alzare l’età pensionabile, giustificando questa decisione con un “allineamento” alle condizioni economiche e demografiche del Paese, ma non fece altro che scaricare le difficoltà economiche sulle spalle di chi aveva lavorato per tutta la vita. L’età pensionabile venne gradualmente aumentata a 65 anni. La riforma Dini, quindi, non solo peggiorò la condizione dei lavoratori, ma aprì la strada a una serie di aggiustamenti che, invece di proteggere i diritti acquisiti, li compromettevano.
La riforma Fornero del 2011 ha rappresentato un ulteriore passo verso il disastro: l’età pensionabile fu aumentata a 66 anni e 3 mesi, introducendo il meccanismo dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Questa scelta ha spinto l’età pensionabile sempre più in là, imponendo a milioni di lavoratori la costrizione di rimanere nel mercato del lavoro per periodi sempre più lunghi, in un contesto in cui l’età avanzata e il deterioramento delle condizioni fisiche non venivano affatto presi in considerazione. Il risultato è stato una continua precarizzazione delle condizioni di vita dei cittadini, con un sistema che ha progressivamente tolto certezze a chi aspettava il meritato riposo dopo anni di lavoro, facendolo invece scivolare sempre più lontano nel tempo.
Nel 2019, l’età pensionabile venne fissata definitivamente a 67 anni per tutti i lavoratori, con il perpetuarsi del meccanismo di adeguamento automatico. Ancora una volta, si è trattato di una decisione che non ha fatto altro che rinviare indefinitamente il diritto a una pensione decente, costringendo milioni di persone a rimanere in una condizione di lavoro che diventa sempre più insostenibile. Le modifiche legislative hanno spinto l’età pensionabile a livelli sempre più alti, con il pretesto di “adeguare” il sistema alle esigenze economiche e demografiche, ma senza tener conto dei reali problemi che la popolazione affronta ogni giorno.
Nel corso degli anni, l’INPS ha continuato a evolversi, ma non certo per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Ha incorporato numerosi enti previdenziali, ampliando le sue funzioni in modo che, seppur nominalmente più ampio, il sistema restasse ingessato e burocraticamente complesso.
Oggi l’INPS è il principale gestore del sistema pensionistico pubblico, ma la sua gestione ha subito numerose critiche per inefficienza e per l’incapacità di rispondere davvero ai bisogni di una società che è cambiata profondamente. Le prestazioni di sostegno al reddito, l’assistenza sociale e il supporto alle famiglie, pur esistendo, sono diventate sempre più difficili da ottenere e non risolvono i problemi reali di una popolazione che si trova a fare i conti con un sistema previdenziale inadeguato, inefficace e sempre più distante dalle necessità quotidiane della gente.