C’è un’immagine che sintetizza il cinismo della politica internazionale: un popolo ridotto in macerie, affamato, umiliato da decenni di occupazione e bombardamenti, a cui si offre una mancia per sparire. È questa la sostanza del cosiddetto piano Trump per trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente”: 5.000 dollari, quattro anni d’affitto, un anno di cibo. Una cifra ridicola per comprare non solo la sopravvivenza, ma l’esilio di due milioni di persone.
Dietro la retorica delle smart city e dei resort di lusso, si nasconde ciò che la storia conosce bene: una “soluzione finale” 2.0, aggiornata ai tempi della finanza globale e del linguaggio aziendale. Non più treni piombati e campi di sterminio, ma incentivi economici e “ricollocamenti volontari”. L’obiettivo resta identico: cancellare un popolo dalla propria terra, ridurlo a variabile fastidiosa da eliminare per aprire spazio al profitto.
Il documento parla di trasferimenti su base volontaria. Ma quale libertà di scelta hanno persone bombardate, senza case, senza ospedali, senza acqua, a cui viene detto: “prendi i soldi e vattene”? È un ricatto travestito da opportunità. È la brutalità dell’espulsione camuffata da programma di sviluppo.
E persino la compensazione è grottesca: token digitali per futuri appartamenti nelle nuove città high-tech. Come se un popolo potesse essere liquidato con un QR code al posto della propria patria.
Il piano non usa fondi pubblici americani, ma si appoggia a investitori privati e Stati del Golfo. In altre parole: profitto costruito sulla cancellazione di Gaza. Israele applaude, mentre parte dell’Occidente finge di scandalizzarsi, ma intanto valuta come inserirsi nel grande affare.
Le Nazioni Unite e varie ONG parlano apertamente di crimine di guerra, di deportazione di massa, di atto “etnicamente espulsivo”. Ma la patina delle “infrastrutture futuristiche” serve a rendere digeribile ciò che in realtà è: un progetto di annientamento politico e culturale.
Accettare questo piano significherebbe normalizzare l’idea che un popolo intero può essere cancellato con un assegno. Significherebbe accettare che i diritti collettivi siano monetizzabili, che la sofferenza sia una variabile da eliminare per far posto a resort e data center.
Gaza non ha bisogno di grattacieli vista mare né di desert resort. Ha bisogno di giustizia, di fine dell’assedio, di autodeterminazione.
Ecco perché chiamare questo piano è una “bestialità”. Bisogna dire la verità senza giri di parole: questa è una soluzione finale in salsa neoliberale, un progetto di espulsione mascherato da business plan. Chi lo sostiene o lo giustifica è complice della disumanizzazione.
Ecco il video scioccante condiviso dalla ministra israeliana Gila Gamliel, in cui si mostra – con l’aiuto dell’intelligenza artificiale – una “Gaza del futuro” trasformata in una sorta di Dubai al mare, senza alcuna traccia dei suoi abitanti palestinesi
COSA MOSTRA IL VIDEO
- La ministra dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia di Israele, Gila Gamliel, ha pubblicato un video AI che immagina Gaza trasformata in un lussuoso resort costiero: grattacieli affacciati sul mare, yacht, turisti, luci sfavillanti, una torre recante il nome “Trump” e personaggi come Netanyahu e Trump (con rispettive consorti) passeggianti serenamente tra le strade ricostruite.
- La didascalia professa: “Ecco la Gaza del futuro. Migrazione volontaria dei gazatini solo con Trump e Netanyahu. Siamo noi o loro!” (in ebraico: “זה אנחנו או – הם!”).
- La stampa internazionale, tra cui CNN Brasil, ABC, Antena 3 e CBN, ha sottolineato la natura artificiosa e grottescamente insensibile del video, tanto più scandaloso se si considerano le condizioni reali: Gaza è oggi un’enclave devastata, con oltre 2 milioni di palestinesi confinati, sotto bombardamenti e con drammatiche carenze umanitarie.
- Secondo ABC, la ministra Gamliel ha detto di aver presentato questa idea di “emigrazione volontaria” al gabinetto di sicurezza già nell’ottobre 2023, all’inizio dell’operazione militare “Spade di Ferro”.
- Il piano sorprende per la sua retorica: emigrazione “volontaria”, proposto in un contesto di assedio, distruzione e vulnerabilità – una condizione che delegittima qualunque idea di libera scelta. Un avvocato israeliano per i Diritti Umani ha definito questo concetto come preparazione alla deportazione, nonostante l’etichetta “volontaria”.
