Quando l’Europa bruciava nel fuoco dell’odio antisemita, i palestinesi aprirono le loro porte a migliaia di ebrei in fuga dalla barbarie. Fu un atto di umanità, un gesto di compassione verso chi aveva perso tutto. Ma quella generosità fu ricambiata con il più crudele dei tradimenti: la sistematica pulizia etnica della Palestina, la distruzione di centinaia di villaggi e l’esilio forzato di un intero popolo.
Negli anni ’30 e ’40, mentre i pogrom e le leggi razziali devastavano le comunità ebraiche europee, molti palestinesi offrirono rifugio, lavoro e sostegno a chi scappava dall’inferno. Nonostante le tensioni già esistenti per la crescente immigrazione sionista, sostenuta dalle potenze coloniali, la risposta palestinese fu spesso improntata alla solidarietà umana. Ma quella stessa umanità sarebbe stata presto calpestata.
Il movimento sionista, infatti, non voleva semplicemente un rifugio per gli ebrei perseguitati: voleva uno Stato ebraico su una terra già abitata. E per realizzarlo, non esitò a usare ogni mezzo: acquisti forzati di terre, milizie armate, terrorismo (come nel caso del massacro di Deir Yassin) e, infine, la cacciata di oltre 750.000 palestinesi nel 1948.
Quella che i sionisti chiamano “Giorno dell’Indipendenza”, è per i palestinesi la Nakba, “la Catastrofe”. Intere famiglie furono costrette a fuggire sotto la minaccia delle armi, mentre le loro case venivano occupate da nuovi coloni. Interi villaggi furono completamente rasi al suolo, i nomi arabi cancellati dalle mappe ufficiali, e con essi scomparve anche una storia millenaria fatta di cultura, tradizioni e radici profonde. Un patrimonio umano e territoriale distrutto con l’obiettivo di cancellare ogni traccia di un popolo e della sua identità.

Eppure, ancora oggi, la narrazione dominante dipinge Israele come “oasi di democrazia” e i palestinesi come “terroristi“. Ma dov’è la democrazia quando milioni di persone vivono sotto occupazione militare, privati dei diritti fondamentali? Dov’è la giustizia quando i rifugiati del ’48 e i loro discendenti sono ancora esiliati, mentre chiunque nel mondo abbia un nonno ebreo può reclamare la cittadinanza israeliana?
Israele celebra la Shoah, (giustamente), ma nega la Nakba. Piange le vittime dell’antisemitismo ma ignora le sofferenze che infligge ogni giorno a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Si presenta come vittima mentre esercita una brutale oppressione coloniale.
E l’Occidente? Complice e ipocrita. Lo stesso Occidente che oggi si straccia le vesti per l’Ucraina, ha finanziato e armato per decenni l’apartheid israeliano. Ha taciuto di fronte agli assassinii mirati, alle demolizioni di case e ai bambini uccisi dai cecchini. Ha applaudito ai “processi di pace” che erano solo foglie di fico per coprire l’espansione degli insediamenti illegali.
Oggi, mentre i palestinesi resistono con le pietre, con la cultura e con la forza incrollabile di chi non si arrende, diventa un dovere morale per chiunque creda nella giustizia, svelare questo tradimento storico. La solidarietà palestinese, non fu un segno di debolezza, ma un atto profondo di fiducia nella dignità umana, una fiducia che il sionismo ha brutalmente spezzato con la violenza.
Ma la Palestina esiste ancora. E finché esisterà, la sua lotta sarà un monito al mondo: nessun oppressore può vincere per sempre. La giustizia, prima o poi, arriva. E quando arriverà, sarà perché qualcuno ha avuto il coraggio di dire la verità.

