Viviamo in un’epoca in cui le politiche urbane, sotto la maschera della sostenibilità e del miglioramento della qualità della vita, stanno rapidamente configurando una realtà che non ha nulla a che vedere con la libertà.
Se qualcuno, dieci anni fa, avesse parlato di città controllate da telecamere in ogni via, di ZTL sempre più pervasivi, di patenti ritirate per ogni minima infrazione, e di robot autonomi e intelligenza artificiale che sostituiscono il lavoro umano, molti avrebbero pensato a una distopia, magari ispirata a un romanzo di Orwell. Ma oggi, quelle stesse politiche si stanno realizzando, pezzo dopo pezzo, sotto la superficie delle buone intenzioni e delle promesse ecologiche.
Prendiamo ad esempio il modello delle zone a traffico limitato (ZTL). Ufficialmente, sono una risposta alle sfide ecologiche, una misura per ridurre l’inquinamento e rendere le città più vivibili. In realtà, queste aree stanno diventando prigioni urbane, sempre più estese e sempre più invasive, che limitano i movimenti delle persone, trasformando interi quartieri, in zone “accessibili” solo a chi ha il permesso, a chi è conformato al sistema, a chi è parte della classe che può permettersi di muoversi liberamente. Queste ZTL non sono più, solo un tentativo di contenere il traffico, ma un modo per confinare, per sorvegliare e, in ultima analisi, per isolare le persone in spazi sempre più limitati, con la scusa della “sostenibilità”.
La creazione di telecamere ad ogni angolo della città è un altro passo inquietante verso una società completamente monitorata. Mentre si giustifica come misura per la sicurezza, queste telecamere sono il vero strumento di controllo sociale, una rete invisibile che scruta ogni angolo, ogni via, ogni passo che compiamo. Nessun angolo di libertà, nessun gesto di dissenso, nessuna deviazione dalla norma resta nascosto. E mentre la giustificazione ufficiale continua a parlare di “prevenzione dei crimini” e “miglioramento della sicurezza”, in realtà stiamo assistendo alla costruzione di una prigione a cielo aperto, in cui i cittadini sono costantemente osservati, e ogni azione viene registrata, catalogata, controllata.
Ma il vero colpo finale arriva con l’introduzione delle politiche di ritiro delle patenti. Con l’intento di “migliorare la sicurezza stradale”, si sta creando una realtà in cui le persone rischiano di perdere il diritto a muoversi, non solo per atti gravi o comportamenti irresponsabili, ma anche per la più piccola delle infrazioni. È un meccanismo punitivo che non solo colpisce chi commette errori sulla strada, ma finisce per minare la libertà di milioni di persone, che si ritrovano a essere escluse dalla possibilità di spostarsi liberamente, semplicemente per aver trasgredito a una norma minore, magari in maniera del tutto non intenzionale. Ogni infrazione diventa un possibile passaggio verso l’esclusione dalla vita sociale e lavorativa, privando le persone di un diritto fondamentale: la mobilità.
E mentre tutte queste politiche si incastrano perfettamente, quasi come i pezzi di un puzzle distopico, la tecnologia si fa strada con l’introduzione di robot autonomi e intelligenza artificiale, pensati per sostituire l’uomo in molteplici ambiti lavorativi e sociali. Non si tratta più solo di una questione ecologica, ma di un controllo sempre più totale, che va ben oltre la sfera urbana. I robot e le macchine non sono solo strumenti di efficienza: sono il segno di una disumanizzazione crescente, un modo per rendere ogni aspetto della nostra vita dipendente da un sistema tecnologico che, progressivamente, riduce la nostra autonomia, la nostra creatività, la nostra libertà di azione. Se il traffico e il controllo della mobilità riducono la nostra libertà di spostamento, l’automazione riduce la nostra libertà di scelta e di espressione.
Ecco allora che, sommando tutte queste iniziative, si delinea un futuro che non è solo simile a quello immaginato da Orwell, ma è addirittura peggiore. In 1984, Orwell descriveva una società dove ogni movimento era sotto il controllo di un partito totalitario, che sorvegliava ogni aspetto della vita, sia nelle strade, che dentro casa. Ma oggi non abbiamo più bisogno di un “Grande Fratello” che ci osserva da lontano: la tecnologia ci osserva direttamente, senza bisogno di intermediazioni. Non siamo più prigionieri di un regime esplicito, ma di una società in cui le nostre azioni sono regolate da una miriade di leggi invisibili, di telecamere e di algoritmi, in cui ogni nostra infrazione, ogni nostro passo falso, può portarci a essere esclusi, a essere controllati, a essere “messi da parte”.
La ZTL, le telecamere, il ritiro delle patenti, la riduzione del traffico e l’introduzione dei robot, non sono solo misure per migliorare la città. Sono strumenti di un controllo invisibile, che si infilano nel nostro quotidiano sotto forma di convenienza, sicurezza e modernità. Ma tutto questo non fa altro che condurci verso un mondo dove la libertà, in tutte le sue forme, è erosa progressivamente, fino a diventare un’illusione.
Siamo di fronte a una “distopia dolce”, un mondo che ci viene venduto come il paradiso dell’efficienza, della sicurezza e della sostenibilità, ma che, in realtà, è una trappola: una città in cui la libertà è confinata, monitorata, punita. Una città dove non ci è più concesso di essere liberi, se non nel perimetro ristretto che qualcun altro ha deciso per noi.
E, forse, questa città non avrà nemmeno bisogno di poliziotti o di soldati per farci rimanere in silenzio. Perché, alla fine, la cosa più efficace che possiamo fare per tenerci sotto controllo è farci credere che stiamo “vivendo meglio”, quando in realtà stiamo solo accettando la nostra prigionia volontaria.