Il conflitto tra Israele e Palestina, in corso da oltre un secolo, rappresenta una delle crisi più complesse e durature del Medio Oriente, con radici storiche, politiche e religiose profondamente intrecciate. Questo conflitto ha causato centinaia di migliaia di vittime tra morti e feriti, milioni di profughi e una crescente instabilità nella regione. La questione si è intensificata a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il territorio palestinese, sotto mandato britannico, fu gradualmente assegnato ai coloni ebrei. Questa decisione segnò l’inizio della tensione, con l’istituzione dello Stato di Israele nel 1948, che comportò la cacciata di massa di oltre 700.000 palestinesi costretti a lasciare le loro case e il perpetuarsi di violenze e divisioni.
Il progetto sionista e l’espansionismo israeliano
Il sionismo, movimento politico nato a fine Ottocento sotto la guida di Theodore Herzl, inizialmente puntava alla creazione di uno Stato ebraico sicuro, ma nel tempo ha assunto una connotazione più aggressiva ed espansionista. Herzl immaginava un “Grande Israele” con confini estesi dal Nilo all’Eufrate, inglobando territori come la Palestina, la Giordania, il Libano, la Siria meridionale e porzioni della Turchia. La stessa Damasco rientrerebbe nelle mire dello Stato Sionista israeliano.
Questo progetto, pur ritenuto utopico in passato, sembra ispirare l’attuale leadership israeliana, in particolare sotto il primo ministro Benjamin Netanyahu, che viene accusato di perseguire un’agenda espansionistica in violazione del diritto internazionale.
Netanyahu ha ripreso e adattato il sogno sionista originario, mirando non solo all’annessione della Cisgiordania e delle Alture del Golan, ma anche alla destabilizzazione degli stati confinanti. Questo obiettivo si realizzerebbe attraverso una “balcanizzazione” del Medio Oriente, ossia la frammentazione degli stati arabi in entità più piccole e deboli, facilmente controllabili.
In questo modo, Israele potrebbe accedere alle ultime riserve di petrolio nei giacimenti del Medio Oriente, oltre che ai preziosi giacimenti di gas offshore di Egitto, Libano e Siria, e a quelli terrestri in Iraq e nelle zone curde. La politica perseguita dall’AIPAC e da Jared Kushner, genero di Donald Trump, nella regione si rifà al Piano Yinon, secondo cui Israele intende estromettere la Russia dalle aree di sua influenza e provocare il collasso degli stati confinanti, riducendoli a realtà più piccole e marginali.
Le conseguenze per la popolazione palestinese
Nel corso dei decenni, i palestinesi hanno vissuto una crescente oppressione e discriminazione da parte di Israele, che ha portato alla loro esclusione forzata dalle terre ancestrali, alla privazione dei diritti fondamentali e alla costante violazione delle leggi internazionali. Le autorità israeliane hanno sistematicamente colonizzato territori fertili palestinesi, spesso sottraendoli con la forza ai legittimi proprietari, distruggendo abitazioni e isolando comunità. Il popolo palestinese è privato di diritti fondamentali e ostacolato nello sviluppo economico, con una burocrazia oppressiva che limita la possibilità di intraprendere attività imprenditoriali. La maggior parte della popolazione palestinese dipende oggi dagli aiuti internazionali, che però si sono drasticamente ridotti. Gli Stati Uniti, storicamente tra i principali sostenitori di Israele, hanno cessato il sostegno diretto ai palestinesi, aggravando ulteriormente la crisi umanitaria.
Le restrizioni imposte da Israele includono anche il limitato accesso ai luoghi di culto, come la moschea di Al-Aqsa, che è un simbolo religioso cruciale per l’Islam. Tali azioni aumentano la tensione tra Israele e i paesi arabi. Inoltre, l’arsenale nucleare israeliano, ufficialmente non riconosciuto ma stimato tra le 400 e le 500 testate, costituisce una fonte di intimidazione nei confronti dei paesi vicini.
Il ruolo delle potenze occidentali
La comunità internazionale, in particolare le potenze occidentali come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, ha spesso adottato un approccio ambiguo nei confronti del conflitto. Da un lato, questi paesi condannano formalmente le violazioni dei diritti umani nei territori occupati; dall’altro, sostengono politicamente e militarmente Israele. La lobby pro-israeliana negli Stati Uniti, rappresentata dall’AIPAC, esercita una forte influenza sulla politica estera americana, promuovendo un’agenda che vede Israele come il principale alleato strategico in Medio Oriente. Questa alleanza comporta non solo il sostegno alle politiche espansionistiche israeliane, ma anche il rifiuto delle risoluzioni ONU che condannano l’occupazione illegale, come la Risoluzione 2334.
La Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
La Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 23 dicembre 2016, riguarda la condanna delle attività di colonizzazione israeliane nei territori palestinesi occupati, tra cui la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture del Golan. La risoluzione è stata approvata con 14 voti favorevoli e l’astensione degli Stati Uniti, che tradizionalmente avevano posto il veto su risoluzioni che criticavano Israele.
In particolare, la Risoluzione 2334 afferma che le colonie israeliane sono una violazione del diritto internazionale e chiede la fine immediata di tutte le costruzioni nei territori occupati. Essa ribadisce il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al suo Stato indipendente con Gerusalemme Est come capitale.
Il testo della risoluzione richiede anche il rispetto della quarta Convenzione di Ginevra che proibisce la trasferimento di popolazione civile in territori occupati. La risoluzione, pur non essendo vincolante, ha avuto un’importante valenza politica, evidenziando il consenso internazionale contro la politica delle colonie israeliane, ma non ha portato a misure concrete per fermare l’espansione dei progetti di colonizzazione.
La risoluzione è stata accolta con favore dalla Palestina e dai paesi arabi, ma Israele l’ha respinta, accusando l’ONU di essere di parte e accusando l’amministrazione Obama di averla promossa senza il sostegno degli Stati Uniti.
Una spirale di instabilità
L’espansionismo israeliano e il deterioramento delle condizioni di vita dei palestinesi alimentano un clima di rabbia e frustrazione che rischia di infiammare ulteriormente l’intera regione. Gli stati arabi confinanti, già indeboliti da conflitti interni e pressioni esterne, temono il rafforzamento del potere israeliano, mentre la possibilità di una guerra su larga scala non è esclusa.
A livello globale, ex potenze coloniali come Gran Bretagna e Francia sembrano vedere nella frammentazione del Medio Oriente un’opportunità per riaffermare la propria influenza nella regione, mantenendo però un basso profilo ufficiale. Questo atteggiamento di complicità o indifferenza, unito alla retorica pro-Israele di molti governi occidentali, ha portato a una mancanza di soluzioni reali e durature.
La necessità di una svolta
Per evitare un ulteriore peggioramento della crisi, è urgente che la comunità internazionale intervenga con decisione. Le autorità occidentali devono imporre a Israele il riconoscimento dello Stato palestinese e l’immediata cessazione delle politiche di annessione. Al contempo, è essenziale sviluppare un piano di pace basato sulla coesistenza dei due stati, che preveda investimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e un trattato di non aggressione reciproca. Solo attraverso un impegno autentico per la giustizia e l’uguaglianza si potrà sperare in una pace duratura.