Covid, l’ho preso. Nonostante i due vaccini fatti per tempo. Succede, mi dicono. Il tampone è stato chiaro.
Arriva a casa il 118, tre palombari mi scortano al Pronto Soccorso più vicino (Reggio Emilia), entro in barella e sono accolto con un ruvido rimprovero: tenga su la mascherina. Mi era scivolata.
Arriva un medico, mi interroga perchè deve assegnarmi un codice di ingresso. Poi ne arriva un altro. E’ perentorio:”Prima dobbiamo farle gli esami del covid”.
E mi parcheggia in un angolo, circondato da un nugolo di barelle. Un assedio. Nessuna informazione. Passano le ore. La pazienza vacilla. Oltretutto un vecchio ictus mi ha tolto la parola. Non posso nemmeno protestare.
Una giovane infermiera indiana, impietosita dal mio disagio (eufemismo) mi conforta assicurandomi il lieto fine. E dopo sette ore mi portano a fare una Tac. Si è fatta sera. Ma nel frattempo si è liberato un letto nel vicino padiglione degli Infettivi.
Arrivo nel reparto Covid che è buio pesto. Mi offrono un the riparatore mentre sanificano il letto 14 che mi è stato destinato. Altri esami, l’ennesimo prelievo, le vene che si ribellano. Hanno già dato, mi implorano una misericordiosa tregua. Le accontento.
Mi corico in pace e subito mi addormento. A mezzanotte entra uno scafandro azzurro con cappuccio. Sono talmente stanco che non riesco neppure a spaventarmi. È l’infermiera della notte. Si ripresenterà all’alba per controllare i parametri.
Ennesima prova che scagiona i no siero sperimentale d’ obbligo. Si ammalano anche i vaccinati, auguri di pronta guarigione.