C’è un’immagine radicata nell’immaginario collettivo: Madre Teresa, piccola donna curva, che accarezza i poveri moribondi di Calcutta. È la “Santa dei derelitti”, la donna che ha conquistato premi Nobel e lodi universali. Ma dietro l’aureola costruita da media e potere politico, la realtà che emerge da testimonianze dirette, indagini giornalistiche e studi medici è molto diversa.
Negli ospizi delle Missionarie della Carità non regnavano la cura, la pietà o il sollievo. Regnava il dolore. Non perché mancassero i mezzi, ma perché il dolore era scelto, voluto, teologicamente giustificato. Antidolorifici come la morfina c’erano, ma non venivano usati. I malati terminali venivano lasciati contorcersi tra spasmi e piaghe, mentre le suore ripetevano che quella sofferenza era “un dono”, un modo per avvicinarsi alla Passione di Cristo.

Un esempio emblematico viene dalla testimonianza del dottor Robin Fox, allora direttore della rivista The Lancet. Durante una visita all’Home for the Dying Destitutes di Calcutta, Fox descrisse cure «haphazard» (approssimative) e mancata applicazione di protocolli diagnostici basilari. Un paziente con febbre alta fu inizialmente trattato con paracetamolo e antibiotico, solo successivamente diagnosticato correttamente per malaria, da un medico in visita, e non dai volontari o suore presenti
Il medico Aroup Chatterjee, che ha indagato per anni sulle case di Calcutta, ha denunciato che non si trattava affatto di ospedali, ma di luoghi di abbandono. Aghi riutilizzati, diagnosi inesistenti, mancanza di cure elementari: eppure la congregazione disponeva di milioni di dollari in donazioni. Perché allora non curare? Perché la logica non era medica, ma dogmatica: soffrire era sacro.
Uno studio condotto da Serge Larivée, Geneviève Chénard e Carole Sénéchal rilevò che le cliniche di Madre Teresa — nonostante milioni di dollari in donazioni — soffrivano di carenze mediche gravi, diagnosi sistematicamente ignorate, nutrizione inadeguata e analgesici per alleviare il dolore dei malati scarsi o inesistenti. Questi ricercatori sottolinearono che “Mother Teresa believed the sick must suffer like Christ on the cross” (Madre Teresa credeva che i malati dovessero soffrire come Cristo crocifisso), e aggiunsero che le ingenti somme raccolte avrebbero potuto garantire un’assistenza sanitaria profondamente diversa e di qualità decisamente superiore.
Christopher Hitchens, nel suo documentario Hell’s Angel, la definì senza mezzi termini “una fanatica della sofferenza”. Non quella propria, però: Madre Teresa accettava con prontezza cure moderne e ospedali di lusso quando si trattava della sua salute. La sofferenza era buona, sì, ma sempre e solo per gli altri.
Il mito di Madre Teresa si regge su un paradosso crudele: ha costruito un impero morale e religioso sulla pelle dei più vulnerabili, trasformando il loro dolore in propaganda spirituale. Non ha alleviato la sofferenza: l’ha santificata, l’ha esaltata, l’ha resa un fine.
Dietro la retorica dell’amore e della carità, rimane una verità feroce: non la cura, ma la sofferenza fu il vero culto di Madre Teresa.