A pochi giorni dal bombardamento mirato contro obiettivi militari iraniani, Donald Trump si è trovato a fronteggiare una reazione a catena che non si aspettava: un’ondata di indignazione proveniente non dai democratici, ma dal cuore pulsante del suo elettorato. Il backlash è stato così potente da costringerlo a una rapida marcia indietro.
L’attacco ordinato da Trump contro l’Iran è stato presentato come una risposta “necessaria” agli attacchi Houthi nello Yemen e al coinvolgimento iraniano nel conflitto israelo-palestinese. Ma la sua base elettorale, composta in gran parte da non interventisti, reduci di guerra e lavoratori della classe operaia in difficoltà economica, ha percepito questa mossa come un tradimento della promessa fondamentale del trumpismo: “Basta con le guerre infinite”.

Inaspettatamente, le critiche più feroci sono arrivate dall’interno del movimento MAGA:
- Steve Bannon ha definito l’attacco un “regalo al Deep State”.
- Tucker Carlson ha accusato Trump di “obbedire a Netanyahu più che agli americani”.
- Marjorie Taylor Greene, icona del trumpismo duro e puro, ha minacciato di “rivalutare il proprio supporto” se l’escalation fosse continuata.
Questi non sono oppositori qualsiasi: sono i guardiani ideologici del movimento che ha portato Trump alla Casa Bianca.
Un sondaggio condotto nei giorni successivi all’attacco ha rivelato che il 53% degli elettori di Trump non approva un intervento militare contro l’Iran. Peggio ancora, molti hanno iniziato a discutere apertamente di “tradimento” e “svendita agli interessi stranieri” sui forum conservatori e nei media indipendenti.
Questa erosione del consenso è un campanello d’allarme per una campagna che ha sempre fatto leva su un’identità anti-establishment e anti-globalista.
Di fronte al crollo nei sondaggi interni e alle minacce di una “rivolta elettorale”, Trump ha improvvisamente cambiato tono. In una dichiarazione ufficiale, ha detto che gli attacchi erano stati “limitati” e che “non cerchiamo un conflitto con l’Iran”. Una clamorosa marcia indietro, contraddetta dai suoi stessi tweet e dalle dichiarazioni iniziali di alcuni consiglieri.
Dietro le quinte, fonti vicine al Comitato elettorale repubblicano confermano che i donatori conservatori stavano iniziando a congelare i fondi, temendo un effetto boomerang tra gli elettori rurali e indipendenti.
Il caso Iran mostra un dato innegabile: Trump non è più il padrone assoluto del suo movimento. L’ideologia che lui stesso ha costruito ora si rivolta contro di lui quando devia dalla linea anti-interventista. La guerra in Medio Oriente è la linea rossa che i suoi elettori non sono disposti a oltrepassare.
La marcia indietro sull’Iran non è solo una scelta tattica ma una resa politica. Un’ammissione che il suo potere si regge su un equilibrio instabile. E che, a pochi mesi dalle elezioni, Trump non può più permettersi di perdere nemmeno una parte della sua base.