Quest’anno ricorrono i 74 anni dall’espulsione di massa e dallo spostamento di oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, villaggi e città durante il conflitto che ha creato Israele nel 1948. Da allora, la Nakba (catastrofe) – come viene chiamata in arabo dai palestinesi – è stata incisa nella coscienza collettiva palestinese come una storia di spossessamento senza fine.
A 74 anni dalla loro espulsione, la sofferenza e lo sfollamento dei profughi palestinesi sono una realtà quotidiana. I palestinesi che sono fuggiti o sono stati espulsi dalle loro case in quello che oggi è Israele, insieme ai loro discendenti, hanno il diritto al ritorno così come stabilito dal diritto internazionale. Tuttavia, non hanno praticamente alcuna prospettiva di poter tornare alle loro case – molte delle quali distrutte da Israele – o ai villaggi e alle città da cui provengono. Israele non ha mai riconosciuto questo loro diritto.
Negare una casa ai palestinesi è al centro del regime di apartheid imposto da Israele ai palestinesi. L’espropriazione delle proprietà dei palestinesi non si è fermata e la nakba è diventata l’emblema dell’oppressione che i palestinesi devono affrontare ogni giorno, da decenni.
Oggi, oltre 5,6 milioni di palestinesi rimangono rifugiati e non hanno diritto al ritorno. Almeno altri 150.000 corrono il rischio reale di perdere la casa a causa della brutale pratica israeliana di demolizioni di case o sgomberi forzati.
IL SISTEMA APARTHEID
La nuova ricerca di Amnesty International dimostra che Israele impone un sistema di oppressione e dominazione sulle e sui palestinesi in tutte le aree sotto il suo controllo: in Israele e nei Territori occupati, e contro i rifugiati palestinesi, in modo che a beneficiarne siano gli ebrei israeliani. Ciò equivale all’apartheid ed è proibita dal diritto internazionale.
Leggi, politiche e pratiche volte a mantenere un sistema crudele di controllo sulle e sui palestinesi, li hanno frammentati geograficamente e politicamente, spesso impoveriti in un costante stato di paura e insicurezza.
L’apartheid è una violazione del diritto internazionale, una grave violazione dei diritti umani protetti a livello internazionale è un crimine contro l’umanità secondo il diritto penale internazionale.
Il termine “apartheid” era originariamente usato per riferirsi a un sistema politico in Sud Africa che imponeva esplicitamente la segregazione razziale, il dominio e l’oppressione di un gruppo razziale da parte di un altro. Da allora è stato adottato dalla comunità internazionale per condannare e criminalizzare tali sistemi e pratiche ovunque si verifichino nel mondo.
Il crimine contro l’umanità dell’apartheid, ai sensi della Convenzione sull’apartheid, dello Statuto di Roma e del diritto internazionale consuetudinario, viene commesso quando un atto disumano (essenzialmente una grave violazione dei diritti umani) viene perpetrato nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale rispetto a un altro, con l’intento di mantenere quel sistema.
L’apartheid può essere considerata come un sistema di trattamenti discriminatori prolungati e crudeli da parte di un gruppo etnico su un altro per controllare questo secondo gruppo.
L’apartheid non è accettabile in nessuna parte del mondo. Quindi perché il mondo l’accetta contro i palestinesi?
I diritti umani sono stati a lungo tenuti da parte dalla comunità internazionale quando ha affrontato la lotta e la sofferenza pluridecennale della popolazione palestinese. Di fronte alla brutalità della repressione israeliana, la popolazione palestinese chiede da oltre vent’anni che venga compreso che la politica israeliana è una politica di apartheid. Nel corso del tempo, a livello internazionale, il trattamento riservato da Israele ai palestinesi ha iniziato a essere considerato in maniera sempre più ampia come apartheid.
Tuttavia, i governi con la responsabilità e il potere di fare qualcosa si sono rifiutati di intraprendere qualsiasi azione significativa per chiedere conto a Israele delle sue responsabilità. Al contrario, si sono nascosti dietro un processo di pace moribondo a scapito dei diritti umani e dell’accountability. Sfortunatamente, la situazione odierna non vede alcun progresso verso una soluzione, ma anzi il peggioramento dei diritti umani per i palestinesi.
Amnesty International chiede a Israele di porre fine al crimine internazionale dell’apartheid, smantellando le misure di frammentazione, segregazione, discriminazione e privazione, attualmente in atto contro la popolazione palestinese.
“Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini… [ma piuttosto] lo stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro” – messaggio pubblicato online nel marzo 2019 dall’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu
Dall’istituzione dello Stato di Israele nel 1948, i governi successivi hanno creato e mantenuto un sistema di leggi, politiche e pratiche progettate per opprimere e dominare i palestinesi. Questo sistema funziona in modi diversi nelle diverse aree in cui Israele esercita il controllo sui diritti dei palestinesi, ma l’intento è sempre lo stesso: privilegiare gli ebrei israeliani a spese dei palestinesi.
Le autorità israeliane hanno fatto questo attraverso quattro principali strategie.
1. FRAMMENTAZIONE IN DOMINI DI CONTROLLO
Nel corso della creazione di Israele come stato ebraico nel 1948, Israele ha espulso centinaia di migliaia di palestinesi e distrutto centinaia di villaggi palestinesi, in quella che è stata una pulizia etnica.
Da allora, i governi successivi hanno progettato leggi e politiche per garantire la continua frammentazione della popolazione palestinese. I palestinesi sono confinati nelle enclavi in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e nelle comunità di profughi, dove sono soggetti a diversi regimi legali e amministrativi. Ciò ha avuto l’effetto di minare i legami familiari, sociali e politici tra le comunità palestinesi e di sopprimere il dissenso contro il sistema dell’apartheid; e ha aiutato anche a massimizzare il controllo ebraico israeliano sulla terra e mantenere una maggioranza demografica ebraica.
Milioni di palestinesi rimangono sfollati come rifugiati e continuano a essere fisicamente separati da coloro che risiedono in Israele e nei Territori occupati a causa della continua negazione da parte di Israele del loro diritto di tornare alle loro case, città e villaggi.
2. ESPROPRI DI TERRA E PROPRIETÀ
Dal 1948, Israele ha imposto massicci e crudeli sequestri di terra per espropriare i palestinesi dei loro terreni e delle loro abitazioni. Sebbene i palestinesi in Israele e nei Territori occupati siano soggetti a diversi regimi legali e amministrativi, Israele ha utilizzato misure di esproprio di terre simili in tutte le aree: ad esempio, dal 1948 Israele ha espropriato terreni in aree di importanza strategica che includono popolazioni palestinesi significative come quelle della Galilea e del Negev/Naqab, e hanno utilizzato misure simili nei Territori occupati dopo l’occupazione militare israeliana nel 1967.
Al fine di massimizzare il controllo ebraico israeliano sulla terra e ridurre al minimo la presenza palestinese, i palestinesi sono stati confinati in enclavi separate e densamente popolate. Mentre le politiche israeliane hanno consentito che l’assegnazione discriminatoria di terre demaniali venisse utilizzata quasi esclusivamente a beneficio degli ebrei israeliani sia all’interno di Israele che nei Territori occupati.
3. SEGREGAZIONE E CONTROLLO
I governi israeliani che si sono succeduti hanno perseguito una strategia per stabilire la dominazione attraverso leggi e politiche discriminatorie che segregano i palestinesi in enclavi, in base al loro status legale e alla loro residenza.
Israele nega a cittadine e cittadini palestinesi i loro diritti alla nazionalità e allo status uguali, mentre e i palestinesi nei Territori palestinesi occupati affrontano severe restrizioni alla libertà di movimento. Israele limita anche i diritti delle e dei palestinesi all’unificazione familiare in modo profondamente discriminatorio: per esempio, i palestinesi dei Territori palestinesi occupati non possono ottenere la residenza o la cittadinanza attraverso il matrimonio, cosa che possono fare le ebree e gli ebrei israeliani.
Israele pone anche severe limitazioni ai diritti civili e politici delle e dei palestinesi, per sopprimere il dissenso e mantenere il sistema di oppressione e dominazione. Per esempio, milioni di palestinesi in Cisgiordania rimangono soggetti al dominio militare di Israele e agli ordini militari draconiani adottati dal 1967.
4. PRIVAZIONE DEI DIRITTI ECONOMICI E SOCIALI
Queste misure hanno lasciato i palestinesi emarginati, impoveriti ed economicamente svantaggiati in Israele e nei Territori palestinesi occupati.
Decenni di allocazione discriminatoria delle risorse da parte delle autorità israeliane, a beneficio delle cittadine e dei cittadini ebrei israeliani in Israele e delle colone e dei coloni israeliani nei Territori palestinesi occupati aggravano queste disuguaglianze. Per esempio, milioni di palestinesi all’interno di Israele e Gerusalemme est vivono in aree densamente popolate che sono generalmente depresse e mancano di adeguati servizi essenziali come la raccolta dei rifiuti, l’elettricità, il trasporto pubblico e le infrastrutture idriche e sanitarie.
I palestinesi in tutte le aree sotto il controllo di Israele hanno meno opportunità di guadagnarsi da vivere e di fare affari rispetto alle ebree e agli ebrei israeliani. Sperimentano limitazioni discriminatorie nell’accesso e nell’uso di terreni agricoli, acqua, gas e petrolio tra le altre risorse naturali, così come restrizioni nell’erogazione di servizi sanitari, di istruzione e di servizi di base. Inoltre, le autorità israeliane si sono appropriate della stragrande maggioranza delle risorse naturali palestinesi nei Territori palestinesi occupati a beneficio economico delle cittadine e dei cittadini ebrei in Israele e negli insediamenti illegali.
Il popolo palestinese è sistematicamente sottoposto a demolizioni di case e sgomberi forzati, e vive nella costante paura di perdere le loro case.
Per più di 73 anni, Israele ha spostato con la forza intere comunità palestinesi. Centinaia di migliaia di case palestinesi sono state demolite, causando terribili traumi e sofferenze. Più di 6 milioni di palestinesi rimangono rifugiati; la maggior parte di questi vive in campi profughi anche al di fuori di Israele/Territori palestinesi occupati. Ci sono più di 100.000 palestinesi negli Territori palestinesi occupati e altri 68.000 all’interno di Israele a rischio imminente di perdere le loro case, molti per la seconda o terza volta.
Il popolo palestinese è intrappolato in un circolo vizioso. Israele richiede loro di ottenere un permesso per costruire o anche solo di erigere una struttura come una tenda, ma – a differenza delle e dei richiedenti ebrei israeliani – raramente rilascia loro un permesso.
Molti palestinesi sono costretti a costruire senza permesso. Israele poi demolisce le case palestinesi sulla base del fatto che sono state costruite “illegalmente”. Israele usa queste politiche discriminatorie di pianificazione e suddivisione in zone per creare condizioni di vita insopportabili per costringere i palestinesi a lasciare le loro case per permettere l’espansione dell’insediamento ebraico.
Mohammed Al-Rajabi, un residente della zona di Al-Bustan a Silwan, la cui casa è stata demolita dalle autorità israeliane il 23 giugno 2020 sulla base del fatto che era stata costruita “illegalmente”, ha descritto ad Amnesty International l’impatto devastante sulla sua famiglia:
“È estremamente difficile da affrontare. Potrebbe essere difficile da esprimere a parole… e ho percepito che è stato più difficile per i miei figli che per noi. Erano davvero entusiasti che avessimo questa nuova casa. Conserverò le foto di quel giorno e le mostrerò ai miei figli quando saranno grandi, così non dimenticheranno quello che ci è successo. Dirò loro, ‘vedete che tipo di ricordi ho da trasmettervi? Il mio piano era che avessero una casa calda e familiare vicino ai loro cari e ai loro familiari. Ora sto trasmettendo i ricordi della distruzione della loro prima casa d’infanzia”.
AMORE FRAMMENTATO: LA SEPARAZIONE DELLE FAMIGLIE PALESTINESI
Israele ha emanato leggi e politiche discriminatorie che distruggono la vita familiare delle e dei palestinesi. Dal 2002, Israele ha adottato una politica che proibisce ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza di ottenere uno status in Israele o a Gerusalemme est attraverso il matrimonio, impedendo così l’unificazione familiare.
Israele ha usato a lungo leggi e politiche discriminatorie per separare le famiglie palestinesi. Per esempio, le palestinesi e i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza non possono ottenere uno status legale in Israele o nella Gerusalemme est occupata attraverso il matrimonio, negando i loro diritti all’unificazione familiare. Questa politica ha costretto migliaia di palestinesi a vivere separati dai loro cari; altri sono costretti ad andare all’estero, o vivono nella costante paura di essere arrestati, espulsi o deportati.
Queste misure prendono esplicitamente di mira i palestinesi, e non le e gli ebrei israeliani, e sono principalmente guidate da considerazioni demografiche che mirano a minimizzare la presenza palestinese all’interno di Israele/Territori palestinesi occupati.
Sumaia è nata e cresciuta a Lod, nel distretto centrale di Israele. Ha sposato suo marito, che viene dalla Striscia di Gaza, nel 1998 e lui si è trasferito a vivere con lei a Lod. Nel 2000, Sumaia e suo marito hanno iniziato il processo di richiesta di unificazione familiare, per poter vivere insieme legalmente. Il processo di unificazione familiare è durato 18 anni, durante i quali la coppia ha vissuto nella paura e nell’ansia. Sumaia ha raccontato ad Amnesty:
“Il governo controlla ogni dettaglio della nostra vita, sono nelle nostre camere da letto, nelle nostre case. Uno dei casi più estremi è stato quando hanno arrestato mio marito nel 2004 mentre stavo dando alla luce una delle mie figlie… mentre ero in sala parto lo hanno arrestato!”
Negli ultimi 14 anni, più di 2 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza hanno vissuto sotto il blocco illegale di Israele. Insieme a quattro grandi offensive militari, il blocco ha avuto conseguenze catastrofiche per la popolazione di Gaza.
Il blocco è una forma di punizione collettiva. Costringe la popolazione di Gaza – la maggior parte della quale è composta da rifugiati o da loro discendenti fuggiti nel 1948 – a vivere in condizioni sempre più disastrose. Ci sono gravi carenze di alloggi, acqua potabile, elettricità, medicine essenziali e cure mediche, cibo, attrezzature educative e materiali da costruzione. Nel 2020, Gaza aveva il tasso di disoccupazione più alto del mondo, e più della metà della sua popolazione viveva sotto la soglia di povertà.
Il 30 marzo 2018, i palestinesi di Gaza hanno lanciato la Grande marcia del ritorno, una serie di manifestazioni di massa settimanali lungo la recinzione tra Gaza e Israele.
Chiedevano il loro diritto a tornare nei loro villaggi e città in quello che ora è Israele, così come la fine del blocco di Israele su Gaza. La risposta è stata brutale: alla fine del 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili, tra cui 46 minori, e ferito più di 8.000 altri con munizioni vere. Un totale di 156 dei feriti ha dovuto subire l’amputazione degli arti. Più di 1.200 pazienti richiedono terapie e riabilitazioni a lungo termine, complesse e costose, e altre decine di migliaia richiedono un sostegno psicosociale – nessuno dei quali è ampiamente disponibile a Gaza.
Il blocco impedisce alle e ai palestinesi di accedere a un’assistenza sanitaria adeguata, in particolare alle cure mediche salvavita e di emergenza disponibili solo fuori Gaza. Le autorità israeliane spesso ritardano questi permessi e a volte non li forniscono affatto.
Adham Al-Hajjar, 36 anni, è un giornalista freelance e vive a Gaza City. Il 6 aprile 2018, mentre stava coprendo le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani posizionati lungo la recinzione che separa Gaza da Israele gli hanno sparato. Non è in grado di ottenere l’aiuto medico di cui ha bisogno a Gaza a causa dei servizi sanitari debilitati che ci sono.
“Il proiettile che è entrato nella mia gamba non è semplicemente entrato e uscito dal mio corpo. È entrato e ha fermato tutto; ha fermato la mia vita. Solo perché un soldato ha premuto il grilletto senza pensare a come avrebbe devastato la mia vita. Lui o lei ha mai pensato a quello che avrebbe causato? Sto camminando come un uomo morto, tutto nella mia vita si è bloccato dal momento in cui quel proiettile è entrato nella mia gamba”.
MODELLI CRIMINALI
Israele ha commesso sistematicamente gravi violazioni dei diritti umani contro i palestinesi per decenni. Violazioni come il trasferimento forzato, la detenzione amministrativa, la tortura, le uccisioni illegali e le lesioni gravi, e la negazione dei diritti e delle libertà fondamentali sono state ben documentate da Amnesty International e da altri. È chiaro che il sistema dell’apartheid israeliano viene mantenuto commettendo questi abusi, che sono stati perpetrati nella quasi totale impunità.
Questi abusi fanno parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione palestinese, portato avanti nel contesto del regime istituzionalizzato di oppressione e dominio sistematico di Israele sulle e sui palestinesi, e quindi costituiscono crimini contro l’umanità di apartheid.
SMANTELLARE IL SISTEMA
Non c’è posto per l’apartheid nel nostro mondo. È un crimine contro l’umanità e deve finire.
Le autorità israeliane hanno goduto dell’impunità per troppo tempo. L’incapacità internazionale di chiedere conto a Israele significa che i palestinesi continuano a soffrire ogni giorno. È ora di alzare la voce, di stare con i palestinesi e dire a Israele che non tollereremo l’apartheid.
Per decenni, i palestinesi hanno chiesto la fine dell’oppressione in cui vivono. Troppo spesso pagano un prezzo terribile per lottare per i loro diritti, e da tempo chiedono che il mondo li aiuti.
Che questo sia l’inizio della fine del sistema di apartheid di Israele contro la popolazione palestinese.
Unitevi a noi nella lotta per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza per tutte e tutti.
Il sionismo si poté concretizzare, soprattutto, sulla spinta emotiva, e in via di principio anche giusta, di dare una patria ad un popolo martoriato dalla Shoah della seconda guerra mondiale, in cui sei milioni di ebrei persero la vita.
La cosa strana è che di tale cifra si inizi a parlare diffusamente già da fine 1800 (fonte conferenze di Biglino):
– Se ne leggeva infatti già dalla seconda metà del 1800, anche nelle riviste giudaiche dell’epoca.
– Nel 1915 si annunciava “Sei milioni di ebrei in Russia sono perseguitati, cacciati, umiliati, torturati, fatti morire di fame a migliaia, massacrati e oltraggiati, depredati”.
– Il “New York Times” nel 1919 e poi nel 1920 scrive: “In Ucraina, 6 milioni di ebrei sono in pericolo”.
– E ancora “Sei milioni di ebrei in Ucraina e in Polonia hanno ricevuto la notizia che stanno per essere completamente sterminati”.
– Addirittura, secondo un calcolo “ghematrico”, la Bibbia conterebbe la data del ritorno in Israele (il 1948) dopo che saranno morti 6 milioni di ebrei.
Ciò che ne consegue è che il tutto possa essere stato pianificato (un piano in cui la vita di 6 milioni di ebrei sarebbe stato il “prezzo” da pagare per la sua attuazione).
Ma da chi?
Per iniziare si deve dire che gli ebrei si suddividono in molteplici etnie, una di queste è quella ashkenazita.
Gli ashkenaziti, secondo la storiografia ufficiale, provengono dall’Europa centrale, in particolare dalla Germania (forse per giustificare gli occhi azzurri che sovente hanno, e ci sarebbero anche esami del DNA a confermarlo, ma la cosa è discutibile).
Ho notato invece una strana “coincidenza” tra il nome della loro etnia e quella di uno dei discendenti di Noè, appunto Aschenaz o, a seconda delle traslitterazione, Ashkenaz (che sicuramente è di molto antecedente alle origini medievali comunemente accettate).
D’altra parte gli israeliti si chiamano così in quanto “discendenti” di Giacobbe ossia Israel.
Nel libro di Enoch (bisnonno di Noè) è scritto che quando Noè nacque, il di lui padre Lamech, rimase stupito dal suo strano fenotipo: pelle molto chiara, capelli ricci e bianchi come lana, e “quando aprì gli occhi, illuminò tutta la casa” quindi, presumibilmente, aveva occhi azzurri o chiari.
Tanto da dubitare che fosse suo, ma invece figlio di uno di quelli là (poi fu rassicurato e la cosa finì lì… voglio dire se ce le hai, te le tieni 😁).
Detto questo, per fare un po’ di chiarezza:
https://www.youtube.com/watch?v=Fmd1gBAkQWg
Pertanto i punti della questione sono il sionismo e chi l’ha voluto.
Alla formazione dello stato di Israele, contribuirono fondamentalmente due nazioni Inghilterra e USA, che concedendo la cessione di parte dei territori della Palestina ne conferirono anche il riconoscimento a livello politico e internazionale.
Ma chi ne furono i veri attuatori?
Sembra che l’élite (come ad esempio i Rothschild di origine ashkenazita) , sia da sempre interessata alle terre della Palestina, infatti:
– Le colonie agricole ebraiche della prima Aliyah saranno molto aiutate, a partire dal 1883 , dal finanziamento del barone Edmond de Rothschild , che appare così come uno degli uomini chiave di questo primo sionismo.
– Dopo il 1899 , l’ Associazione di colonizzazione ebraica , fondata dal barone Maurice de Hirsch nel 1891 , subentrò finanziariamente e partecipò anche all’acquisto di terre in Palestina e all’aiuto agli insediamenti agricoli.
– Nel 1917 , Lord Balfour, in rappresentanza del governo britannico, inviò a Lord Lionel Walter Rothschild una lettera, la ” Dichiarazione Balfour “, in cui indicava che il Regno Unito era favorevole all’istituzione di una “casa nazionale ebraica” in Palestina. Questa lettera non è un impegno legalmente vincolante, ma rappresenta un enorme incoraggiamento per il sionismo.
Nel secondo dopoguerra furono sempre loro a incentivare l’immigrazione nella neo nata Israele e a influire costantemente sulla sua politica.
A Tel Aviv, uno dei suoi più famosi viali è Boulevard Rothschild, che è anche il cuore del distretto finanziario di Tel Aviv, con la torre della First International Bank a ricordarlo.
Inoltre troviamo anche la via intestata a Theodor Herzl, ebreo ungherese di lingua tedesca e di origine ashkenazita, che insieme a Max Nordau, fu il padre del sionismo.
Oltretutto Israele è sostanzialmente una nazione militarizzata e pertanto facilmente controllata dal governo e quindi da chi a sua volta controlla quest’ultimo.
Pertanto, ognuno unisca i puntini e tragga le sue conclusioni.
Ma queste sono ovviamente solo elucubrazioni di un povero ignorante, basate su quelle di altri poveri ignoranti trovate in rete, la cui unica scusante è la curiosità.