Rabbino David Mivasair ricorda il suo primo incontro con il razzismo contro i palestinesi quando, all’età di 19 anni, visitò per la prima volta Israele come giovane ebreo americano. Arrivato in Israele, si sentiva connesso a quel luogo, considerandolo la “sua terra” e quella “del suo popolo”. Nei primi giorni del suo soggiorno a Gerusalemme, accadde un episodio che segnò profondamente la sua visione della realtà. Vide un bambino, probabilmente di sei o sette anni, con la mano sanguinante, probabilmente ferita da una bottiglia rotta. Il bambino piangeva e sembrava essere molto spaventato.
Preoccupato, Rabbi Mivasair si avvicinò per aiutare il bambino e decise di portarlo da due poliziotti vicini, credendo che lo avrebbero soccorso. In ebraico, chiese loro di aiutare il bambino ferito. La risposta dei poliziotti lo colpì duramente: gli dissero di lasciar perdere, dicendo che il bambino era arabo e quindi non meritava assistenza. La crudezza della loro reazione lo sorprese e lo fece riflettere profondamente: si trovava in un contesto in cui la vita di una persona veniva sminuita solo per la sua etnia. Questo fu il suo primo incontro con il razzismo in Israele, un’esperienza che lo fece fermare a pensare: “Aspetta un attimo, questo non è giusto”. Da quel momento in poi, la sua percezione di quella realtà cambiò, spingendolo a interrogarsi su questioni di giustizia e umanità.