«Nella Sede storica di Piazza del Gesù, 47. All’alba del 15 marzo [refuso: aprile] 1967, è passato all’O. Et. l’Illustre Fr. Antonio de Curtis 30° Venerabile della R.L. “Fulgor Artis” dell’O. di Roma. Il titolo distintivo che Egli scelse per la Sua bella Officina significò per Lui incitamento e passione per quell’arte incomparabile di cui attinse con indeclinabile fede le più incantevoli cime. La Massoneria abbruna i suoi Labari con infinita tristezza; ma con il massimo orgoglio iscrive il Suo nome sul Gr. Libro d’oro degli innumeri Fratelli che con la loro arte ed il loro ingegno onorarono l’intera umanità».
Così il 21 aprile 1967 la Loggia Fulgor artis annunciava dalle pagine del “Tempo” di Roma la scomparsa di Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe dei Focas Angelo Flavio Ducas Comneno Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo, in arte Totò.
Difficile riuscire a ripercorrere le tappe dell’iniziazione di Totò alla Massoneria, un percorso che lo portò a costituire la “Sua bella Officina”, la Fulgor artis. Di fatto i documenti attestano la presenza di Antonio de Curtis a metà del 1945 come Fratello di 18° in una Loggia napoletana detta Fulgor e, qualche mese dopo, in ottobre, compare come Maestro Venerabile 30° nella Fulgor artis di Roma, all’Obbedienza della Federazione Massonica Universale del Rito Scozzese Antico ed Accettato, quella Federazione che dal 21 giugno 1944 spostò molte volte la sua sede in Roma fino al 3 febbraio 1948 quando ottenne quella definitiva di Piazza del Gesù al n. 47.
In taluni casi (cfr. Giordano Gamberini) si parla di un’Officina promossa e fondata dal principe come Ars et Labor, ma non è possibile stabilire se essa fosse altra Loggia o se si fuse o confuse con la Fulgor artis. La sua affiliazione viene fatta risalire al 1944, nella Loggia Palingenesi. Ma quelli, dopo le furie fasciste e la clandestinità, erano anni di grande confusione, e le Officine avevano ripreso i lavori in modo libero e spontaneo, prima dei riconoscimenti formali.
Comunque, in breve tempo egli fondò a Roma una Loggia dal significativo nome Fulgor artis, di cui probabilmente ricoprì sempre la carica di Maestro Venerabile e che riuniva vari attori di cinema e teatro. Era lo stesso, Antonio de Curtis, a presentare all’Officina gli iniziati, facendosi per ciascuno “garante della di lui onestà, del suo disinteresse, del suo amore per la Patria e l’Umanità, e dei suoi buoni costumi”, a testimonianza di un costante e infaticabile lavoro per l’Ordine e, secondo i dettami libero muratori, per l’umanità.
Sembra quasi — gli studi sull’argomento ci permettono di fare solo delle ipotesi — che egli abbia fortemente voluto far nascere a Roma una sorta di corporazione di attori come avanguardia della cultura laica e che si fosse occupato dell’impegno del libero muratore in ambito culturale e sociale.
Infatti il principe Antonio de Curtis, un Fratello che avrebbe potuto senza difficoltà acquisire il 33° del Rito Scozzese, che avrebbe potuto arrivare cioè a far parte delle alte sfere della gerarchia massonica, nel Supremo Consiglio per la gestione del Rito, si fermò al 30° grado.
Quest’anno, ricorrendo l’anniversario dei cento anni della nascita di Totò (15 febbraio 1898), il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Virgilio Gaito, in un invito al Sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, perché in questa occasione ricordi non solo l’attore ma anche il Fratello, ha suscitato sconcerto e scatenato repliche indignate: come immaginarsi Totò “con indosso il grembiulino, a compiere rituali sotto l’egida di squadra e compasso”! (cfr. “La Repubblica”, 15 febbraio 1998).
Luciano De Crescenzo ha gridato allo scandalo. Renzo Arbore, invece, ha giustamente replicato:
“Credo che Totò avesse molto forte il sentimento della solidarietà ed era in questo senso massone. [ … ] Totò aveva queste due anime. Una voleva elevarsi, affrancarsi dal personaggio. Potrebbe aver visto questa strada, entrare a far parte di un club di persone rette e giuste, un modo, appunto, di esprimere la sua voglia di andare incontro al prossimo”.
Qui vogliamo ricordarlo così, un comico dall’infinita umanità, portato ad aiutare tutti nella ferma volontà di intervenire in favore delle persone meno fortunate. Dunque, la presenza di Totò in Massoneria era un “segreto“, nessuno fino ad ora ne aveva mai parlato pubblicamente.
Sulla carriera di Totò, invece, sappiamo tutto, tutte le curiosità e tutti gli aneddoti. Totò stesso lo ha raccontato, ma fermandosi al 1930, al suicidio della soubrette Liliana Castagnola a cui era stato legato da una forte passione. Neppure le pagine scritte da Franca Faldini, la compagna che gli è stata accanto fino alla morte, riescono a far luce sul “segreto” del grande Totò. Infatti, a differenza di altri personaggi pubblici, la sua appartenenza alla Libera Muratoria fu sempre poco conosciuta.
Nel privato Antonio de Curtis, era un distinto gentiluomo, serio, severo e silenzioso, quasi come se esistessero due persone: il principe e il comico, il gentiluomo e il buffone, l’uomo e la marionetta disarticolata, Antonio e Totò.
Le stesse prefazioni alle ristampe della raccolta di poesie che prende il nome dalla sua più famosa, ‘A livella, pubblicate per la prima volta nel 1964, si fermano a superficiali riflessioni sul senso di contrappasso che il pensiero della morte in una poesia come ‘A livella, ispirata peraltro ad uno dei più importanti elementi del simbolismo massonico, infonde rispetto a quell’universo del risibile che era Totò.
Evidentemente il principe de Curtis aveva pienamente aderito ai giuramenti degli antichi rituali, per i quali la Massoneria è essa stessa il “segreto”:
“V’è qualche cosa di comune fra voi e me?” — recitano — “Sì, Venerabile Maestro”, “E che cosa è, fratello mio?”, “Un segreto”, “E quale è?”, “La Massoneria”.
E l’ingresso ai segreti dei massoni è nascosto, come si apprende da altro rituale, “nel cuore, in cui sono racchiusi tutti i segreti dell’Ordine”.
Totò nacque il 15 febbraio 1898 nel Rione Sanità, a Napoli, dove nascerà un museo, da Anna Clemente e da padre ignoto: un figlio di N.N. Nella povertà delle strade più colorate e vivaci di Napoli, nacque l’attore, il comico.
“Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore e la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita.”
Soltanto nel 1924 il marchese Giuseppe de Curtis sposò Anna. Antonio non solo riuscì ad essere riconosciuto come figlio legittimo, ma quasi come una riscossa di un povero figlio dei bassi napoletani, ricostruì tutto il suo albero genealogico tanto da fregiarsi, con severità e ironia, di infiniti appellativi.
Poco più che ragazzo iniziò il servizio di leva a Napoli, imparando ben presto a marcare visita grazie alla sua innata capacità di simulare gravi malattie; ma quando venne trasferito a Livorno, fu costretto a subire le vessazioni di un caporale, “il caporale per antonomasia”, promosso “per mancanza di graduati disponibili, pur essendo quasi analfabeta”.
“Durante le punizioni [ … ], rimuginavo in me un rancore senza fine nei confronti dei caporali, verso coloro cioè che, muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri [ … ]. Contrapponevo, ad essi, gli uomini, le persone, cioè, che sanno adoperare la loro autorità senza abusare dei poteri loro commessi”.
Una filosofia spicciola ma chiara, da cui non solo nacque la sua più celebre battuta, ma un modo di vivere, di distinguere, selezionare e comprendere il genere umano. Dopo i difficili esordi come fantasista in piccole compagnie, con la compagnia Maresca e Molinari ottenne i primi successi in un crescendo che lo portò ad essere conosciuto ed amato dal grande pubblico. Fu, invece, poco amato dalla critica per quella infinità di film di cassetta, girati sottocosto in pochissimo tempo e senza sceneggiature grazie alla capacità di Totò di improvvisare sulla scena e di riuscire bene al primo ciack, ma che incassarono tanto da permettere alle case di produzione di finanziare i capolavori neorealisti che hanno reso grande l’Italia. Certo questo gli ha impedito di diventare un Charlie Chaplin o un Buster Keaton.
La sua popolarità era affidata al linguaggio, alle battute, i fraintendimenti, le parole storpiate, i bizzarri “neologismi”, le esagerazioni dell’italiano conformista, le traduzioni maccheroniche, i giochi di parole e le assonanze linguistiche, che lo hanno reso un eroe tutto italiano e poco esportabile.
Del resto, anche in teatro Totò, vero animale da palcoscenico, si affidava solo al suo estro. Inutile per gli sceneggiatori scrivere dialoghi, perché i gesti e le battute nascevano così dall’osservazione della gente e dal rapporto col pubblico. Per questo fu molto amato, soprattutto negli anni Cinquanta, perché non si poneva come un intellettuale, ma incarnava l’uomo qualunque in difficoltà per il lavoro, lo stipendio, le tasse, per la fame, i soldi; quello che, però, si arrangia sempre, l’italiano onesto truffatore ma timorato di Dio e innamorato di tutte le donne. Per loro scrisse bellissime canzoni come Miss mia cara Miss o la famosissima Malafemmena.
Il secondo dopoguerra segna, con l’adesione alla Massoneria, una svolta nella vita di Antonio. Il giornalista Alessandro Ferraù, che scrisse una biografia di Totò già nel 1941, ha voluto sottilmente o ingenuamente segnare questo passaggio attraverso una piccola ma significativa dedica.
Nel 1941 Totò gli regalò una foto e nel 1967 un volume di ‘A livella entrambe con la stessa dedica ma nella seconda «aveva inserito al posto di ‘carissimo Direttore’, la frase ‘al mio carissimo e fraterno amico’». Tutto gira, dunque, attorno a quella poesia, origine e fulcro della sua iniziazione, i cui primi versi sono apparsi nel 1953, in appendice al libro Siamo uomini o caporali? Un inno alla livella (dal lat. libella, bilancia), all’orizzontalità perfetta, alla Grande Eguagliatrice.
Il poeta ci racconta in versi di essere stato testimone, il giorno dei morti, al cimitero, di un fatto curioso: il fantasma di un marchese e quello di un netturbino si incontrano dove sono sepolte le loro salme, l’una accanto all’altra. Il marchese, irritato dalla vicinanza della spoglia e sporca tomba dell’altro, lo aggredisce:
“come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato?! [ … ] Ancor oltre sopportar non posso la vostra vicinanza puzzolente”. Il netturbino, dopo averlo ascoltato, si spazientisce: “Ma chi te cride d’essere… nu ddio? Ccà dinto, ‘o vvuò capì, ca simmo eguale? Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale”.
I due protagonisti si presentano con caratteristiche umane e terrene: il nobile è vestito col cilindro e un gran pastrano, è marchese, signore di Rovigo e di Belluno, porta solo appellativi ma non possiede un nome e parla correttamente; lo “scupatore” è tutto sporco e misero, si chiama Gennaro Esposito e parla in dialetto napoletano. Immancabilmente presenti le due anime di Antonio de Curtis, il principe e il povero, il blasonato e il figlio di N.N. La morte che qui viene celebrata, non è la nemica, non rappresenta la fine, non è drammatica. Per i Fratelli la morte si lega alla simbologia della terra. È un rito di passaggio: rivelazione e introduzione.
Putrescat ut resurgat: tutte le iniziazioni attraversano una fase di morte prima di spalancare le porte ad una vita nuova. La morte libera le forze ascensionali dello spirito, è la condizione per accedere ad una vita superiore. Il messaggio è affidato a Gennaro, lo scopatore:
“nuje simmo serie… appartenimmo â morte!”. La Morte è, del resto, il campo neutro, dove non esistono distinzioni né per bontà o cattiveria, né per nobiltà o povertà, né di gerarchia e potere: «’A morte ‘o ssaje ched’è? … è una livella».
Il livello — l’orizzontale — assicura l’uguaglianza degli esseri, affinché nessuno si sovrapponga agli altri per dominarli, come, nell’esperienza di Totò, i caporali. Come a dire:
“siamo uomini, non caporali”.
La livella e il filo a piombo sono gli attributi dei due Sorveglianti e la loro dualità corrisponde a quella delle due colonne del Tempio. La livella è costituita da una squadra al vertice della quale è sospeso un filo a piombo: quindi non solo determina l’orizzontale, ma anche la verticale, l’espansione cosmica. Il passaggio dalla perpendicolare alla livella esprime una crescita, quella dal grado di Apprendista a quello di Compagno. La sintesi della perpendicolare con la livella non è realizzata se non per mezzo della squadra, attributo del Venerabile. La livella si lega all’iniziazione, all’inizio del percorso muratorio, esprime la crescita del massone, e come tale possiamo pensare che fu scritta da Totò.
Nel 1957 il principe fu colpito da una grave malattia agli occhi, che lo rese via via quasi cieco, ma che non gli impedì di continuare a lavorare fino alla morte, il 15 aprile 1967, quando lo colpì un infarto. Nell’arco degli ultimi dieci anni, malgrado le sue condizioni fisiche, interpretò più di 43 film, tra cui nel 1966 Uccellacci e uccellini, con la regia di Pier Paolo Pasolini, una delle più belle e struggenti interpretazioni di un Totò quasi cieco, per la quale, uno dei meno premiati attori italiani, ottenne il “Nastro d’argento”.
“E se qualche volta sono riuscito anche a commuovervi”, scrisse a conclusione della sua biografia apparsa nel 1952, “ne sono felice, perché [ … ] una lacrima è solo l’altra faccia del sorriso. E ci siamo capiti, perché ognuno di noi è passato attraverso gioie, dispiaceri e amare delusioni nella grande commedia della vita. Altrimenti, se fossimo sempre impassibili, spettatori e non attori, non saremmo veri uomini, ma caporali”.
Le informazioni documentate relative all’appartenenza di Antonio de Curtis alla Massoneria sono state fornite dal Direttore dell’Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani, Vittorio Gnocchini, che ringrazio sentitamente per la disponibilità, l’entusiasmo e la serietà con cui sempre si mette a disposizione per il reperimento dei documenti.
Articolo di Rita Polverini datato 1998 e pubblicato su il “Laboratorio” n. 36 maggio-giugno 1998- Turri Copisteria, Scandicci-FI.
Il necrologio apparso sui giornali del 18 aprile 1967 col quale la massoneria italiana partecipava la scomparsa di “Fr. Antonio de Curtis 30” non mi colse di sorpresa. Sapevo che Antonio era massone. Lo avevo appreso per caso verso la fine degli anni Cinquanta. Fu a Napoli, al bar dell’Hotel Excelsior, dove lo vidi scambiare strani segni con un tale seduto al bancone e gliene chiesi il motivo. Mi disse che quella era la gestualità convenuta, appunto, fra i massoni per riconoscersi ovunque. Che essendolo era da tempo “in sonno”, poiché riteneva che questa associazione si fosse distaccata dai presupposti etici su cui si fondava; ossia, tra l’altro, la lotta all’ignoranza, la liberazione da ogni pregiudizio o fanatismo religioso, l’aspirazione alla fratellanza universale. E quindi aggiunse: “Però anche “dormendo”, il così detto sacco della vedova pro diseredati io lo colmo lo stesso per i fatti miei”
Tratto da “Roma Hollywood Roma- Totò ma non solo” di Franca Faldini edito da Baldini&Castoldi nel 1997
Totò fu un maestro anche come massone
NAPOLI – Totò è stato massone, fu anche fondatore, diventandone Maestro venerabile, della Loggia “Ars et Labor”. Lo afferma, in una lettera aperta al sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, il Gran maestro del Grande oriente d’ Italia, Virgilio Gaito. In occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’ attore napoletano, in programma per oggi, da palazzo Giustiniani arriva l’ appello:
“Eviti, signor sindaco, che anche la memoria di Totò sia colpita dall’ opera di rimozione della sua appartenenza alla Massoneria, che troppe volte fa cadere nell’ oblio l’ esperienza massonica di tanti illustri italiani”.
Gaito dice di scrivere anche a nome “del Fratello Totò, passato all’ Oriente Eterno. Questo le chiedo di ricordare, domenica quando si troverà sulla tomba del grande Artista, principe Antonio De Curtis, al Cimitero del Pianto”.
Sembra difficile immaginare, almeno fuori dalla scena dei suoi film, Totò “muratore” nel Tempio, con indosso il grembiulino, a compiere rituali sotto l’ egida di squadra e compasso e dell’ occhio “che tutto vede”.
Incredula, innanzitutto, la figlia Liliana che replica: “In famiglia non ne ha mai parlato”. Eppure il Gran maestro della Loggia, nata in Italia dal 1805, sembra saperne moltissimo sul “principe della risata”.
“Totò – scrive ancora nella lettera al sindaco Bassolino – fu iniziato alla Massoneria nel 1944 dalla Loggia Palingenesi, dunque all’ età di 46 anni, nel pieno della sua maturità di uomo e di artista: una scelta che ha segnato profondamente tutto il resto della sua vita”.
E precisa anche:
“Totò fu anche fondatore – diventandone poi Maestro venerabile – della Loggia “Ars et Labor””.
L’ avvocato Virgilio Gaito si dice convinto di reclamare il riconoscimento di una “verità storica su un grande napoletano, un grande italiano e – ma questo pochi lo sanno e molti se ne meraviglieranno – un grande Massone”. E chiama in causa una delle più celebri poesie dell’ attore:
“Ha espresso i sentimenti propri della sua appartenenza attraverso la poesia ‘ A livella, nella quale sono mirabilmente descritti i valori della vera Massoneria, che si batte da sempre contro l’ ingiustizia e la disuguaglianza tra gli uomini”.
Totò massone? Luciano De Crescenzo non ci crede. “Non può essere vero – sbotta lo scrittore – io che l’ ho conosciuto, lo posso dire: tutto poteva essere tranne che un massone”.
De Crescenzo aggiunge:
“Io parlerei di un’ incompatibilità di tipo caratteriale. Perché ci si iscrive ad un’ associazione più o meno segreta? Per ricavarne dei vantaggi, per contare di più. Ma a che tipo di vantaggi poteva aspirare uno come Totò, che nel suo campo era il massimo, e che ovunque andava era conosciuto ed amato da tutti?”.
“La verità è un’ altra – prosegue lo scrittore – è destino comune a molti personaggi famosi finire senza saperlo in liste massoniche o, peggio, in elenchi di affiliati ad associazioni di criminalità organizzata. Ricordate Franco Franchi, sospettato di essere mafioso? E Claudio Villa, anche lui accusato di essere massone? In entrambi i casi, non era vero niente. Anche a me una volta, a Napoli, è capitato di essere trascinato ad una festa che – per fortuna me ne accorsi in tempo – era una specie di riunione della camorra. Ma da qui a dire che ero un camorrista ce ne corre”.
Domani, nel rione Sanità di Napoli, dove Totò nacque, inizieranno i lavori di ristrutturazione e di sistemazione dei locali di Palazzo dello Spagnuolo, in via Vergini, destinati ad ospitare il museo a lui dedicato. Il restauro, per cui è stato stanziato oltre un miliardo, durerà un anno. Il museo sarà gestito dall’ associazione presieduta da Liliana De Curtis. L’ iniziativa rientra nel progetto di riqualificazione dei Quartieri Spagnoli finanziato dall’ Unione europea. E Rifondazione comunista pensa di intitolare una piazza o un largo del centro storico di Napoli all’ illustre concittadino. Franco Di Mauro, capogruppo consiliare di Rifondazione proporrà alle forze politiche del Consiglio comunale di sottoscrivere l’ ordine del giorno per “Antonio De Curtis, in arte Totò. Principe della risata”.
Il sindaco Bassolino, almeno ieri, non ha commentato la lettera arrivata da Palazzo Giustiniani. Era a Firenze, molto più interessato alle conclusioni di D’ Alema sulla Cosa 2. Ci pensa De Crescenzo a tagliare corto: “Totò massone, fondatore di una loggia? Lui avrebbe risposto: Ma mi faccia il piacere…”.
Articolo di Patrizia Capua pubblicato su repubblica.it il 15 aprile 1998
Totò “uomo di mondo” massone dal 1° maggio 1925
Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna l’attrezzo del lavoro di loggia.
Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran Loggia d’Italia.
Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti “profani”.
Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per ordine…
Primavera di bellezza?
Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo, Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel “delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla Camera dei Deputati”. Nessuno fiata.
La maggior parte dei deputati d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal 1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora una minoranza (227 su 545).
Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra. Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.
Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”. Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato. Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente accade tra dogmatismi.
In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo, “quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.
L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”
Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente. È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta a Occidente.
Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza. Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”.
Chierichetto di passo come tanti coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa, Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”.
Si compiacque anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici, scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio, Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la “Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo.
“Uomo di mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una “compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla “fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.
La Gran Loggia dal tramonto…
Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti” della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo: uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana: “Segreto”.
Era il giorno dell’approvazione della legge “contro la massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente confermato a Losanna nel 1922.
In Italia le logge erano perseguitate, invase, incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa, ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte (tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto Beneduce (del Grande Oriente).
… alla Palingenesi e al Fulgore
Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto. Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria, Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza, praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.
Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed, Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori) gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so” gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”. “Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a Capri.
“Resurrexit… sino al grado 33°”
Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione” della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata” si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive, non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e della cecità. Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di riconoscimento in uso tra massoni.
Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini, Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.
Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.
“‘A Livella”
Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo” con lo Spirito.
Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse: “professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste, è un bel massone, un massone”.
Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro” durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.
Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori, cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa, Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora, proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.